Può capitare che un lavoratore contravvenga, colposamente o deliberatamente, a una disposizione aziendale o normativa. E può anche capitare che quella condotta illegittima sia posta in essere perché il lavoratore ha visto altri colleghi fare (o non fare) la stessa cosa. Può allora succedere che il lavoratore, a fronte della sostanziale tolleranza dimostrata dal datore di lavoro, si convinca di non aver fatto nulla di male e che nulla gli possa essere rimproverato. Ma è davvero così?
La tolleranza del datore di lavoro vale a giustificare la condotta illegittima posta in essere dal lavoratore? E vale conseguentemente a escludere il potere del datore di lavoro di agire disciplinarmente? A questi interrogativi ha risposto una recentissima sentenza della Corte Suprema (Cass. 24.3.2025 n. 7826).
Il caso esaminato dalla Corte di Cassazione si riferiva a un dipendente licenziato per giusta causa per aver fumato (insieme ad altri colleghi) in una determinata area dello stabilimento a cui era addetto, nonostante gli fosse noto che vi era il divieto di farlo. Sia il Tribunale di primo grado che la Corte d’Appello di Milano avevano dichiarato illegittimo il licenziamento, disponendo la reintegra del lavoratore.
In particolare, la Corte d’Appello aveva fondato la propria decisione sul rilievo secondo cui la “tolleranza di parte datoriale rispetto all’abitudine dei dipendenti di fumare in quella zona… fosse sintomatica di una valutazione di quella prassi come non illecita“, giungendo così a ritenere insussistente il fatto contestato ai fini disciplinari e applicando la tutela reintegratoria ai sensi dell’art. 3, comma 2, D.lgs. 23/2015.
La Suprema Corte ha però “ribaltato” questa interpretazione. Secondo la Corte di Cassazione, “in ipotesi di tolleranza di condotte illegittime” poste in essere dal lavoratore, “non basta la mancata reazione del soggetto deputato al controllo a far venire meno l’illiceità della condotta e che l’esclusione di responsabilità dell’autore della violazione in tanto è configurabile in quanto ricorrano elementi ulteriori, capaci di ingenerare nel trasgressore la incolpevole convinzione di liceità della condotta, sì che non possa essergli mosso neppure un addebito di negligenza“.
Ma quali sarebbero gli “elementi ulteriori” a cui si riferisce la sentenza? In primo luogo, segnala la Corte di Cassazione, è necessario che il lavoratore sia caduto in errore sulla liceità della propria condotta ed è inoltre necessario che tale errore sia “inevitabile”.
A tal fine, precisa la sentenza, “occorre un elemento positivo, estraneo all’autore dell’infrazione, idoneo ad ingenerare nello stesso la convinzione della sopra riferita liceità, senza che il medesimo sia stato negligente o imprudente; è anzi necessario che il trasgressore abbia fatto tutto quanto possibile per osservare la legge e che nessun rimprovero possa essergli mosso, così che l’errore risulti incolpevole, non suscettibile cioè di essere impedito dall’interessato con l’ordinaria diligenza“.
Questa “ignoranza incolpevole”, segnala la Corte di Cassazione, può anche essere ingenerata “dal comportamento tenuto dall’organo istituzionalmente preposto al controllo di quell’attività, sempre che si accerti che l’affidamento che esso ingenera nel privato rivesta portata tale da escludere ogni incertezza sulla legittimità e liceità della condotta dello stesso“.
Calando questi principi nel caso concreto, la Corte Suprema ha rilevato che la Corte di Appello aveva sbagliato “nell’attribuire alla tolleranza datoriale nel reprimere le violazioni l’effetto di escludere l’antigiuridicità della condotta del dipendente, senza [appunto] indagare su presenza di elementi ulteriori, atti a ingenerare nel lavoratore l’incolpevole convinzione di liceità della condotta e senza verificare se il dipendente avesse, in buona fede, fatto il possibile per rispettare il divieto di fumo” (tutte circostanze che nel caso di specie parevano non sussistere).
In conclusione: la mera tolleranza non vale di per sé sola a giustificare la condotta illegittima posta in essere dal lavoratore.
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