Nel lontano 1850 Nathaniel Hawthorne scrisse un’opera, La lettera scarlatta, in cui la protagonista, Hester Prynne, venne esposta al pubblico ludibrio a fronte di un’accusa di adulterio venendo marchiata con una lettera A. Pur non essendo nel New England puritano del XVII secolo, nel definire una persona “di potere” le si attribuisce una sorta di cattiva reputazione per certi versi simile.
Il termine ha maturato una connotazione negativa, tanto che, on e offline, sono molto popolari affermazioni come “più leadership e meno potere“. Chi lo esercita crea quindi storytelling persuasivi nel tentativo di nasconderlo, quasi vergognandosi di mostrarlo o di ammettere di detenerlo. Al di là di modi e intenti si tratta di una dinamica connaturata nelle organizzazioni, del motore di qualsiasi cambiamento. Parafrasando il primo assioma della comunicazione di P. Watzlawick (“Non si può non comunicare“) potremmo dire che “Non si può non essere in una dinamica di potere“. Le motivazioni con cui lo si esercita determinano i risvolti morali e moralistici del potere, ambiti estranei a questa riflessione che si limita ad analizzarne le caratteristiche in chiave neutrale.
Il libro Fate pace col potere: contro la retorica della leadership (L. Baiguini, 2024) è dedicato a questo convitato di pietra e lo definisce come la capacità di un attore sociale di determinare la condotta di un altro attore sociale. Esistono essenzialmente tre tipologie di potere: coercitivo (basato su un meccanismo di sanzione), economico (basato su un meccanismo di remunerazione) e leadership (basata sul consenso). La leadership non è dunque da considerarsi una pratica contrapposta al potere, bensì una delle sue forme, tant’è che tutte le teorie sulla leadership partono da un unico quesito di fondo: come influire in maniera efficiente sul comportamento delle persone?
Chi esercita potere nelle organizzazioni adotta spesso, talvolta inconsciamente, un ragionamento puramente logico utilizzando la tipologia che gli consenta di ottenere i risultati prefissati con il miglior rapporto tra benefici e costi. La logica è strettamente situazionale, visto che determinate forme di potere funzionano meglio di altre a seconda del frangente. Ad esempio, a fronte di una forte resistenza al cambiamento il potere coercitivo si configura come più idoneo. Generare accettazione al cambiamento basandosi su forme di remunerazione (potere economico) o sul consenso (leadership) non solo è economicamente inefficiente, ma, spesso, addirittura impossibile.
Secondo Baiguini, osservando le organizzazioni emerge un tentativo di ricerca dell’adesione a tutti i costi, una pretesa populista che appare dal punto di vista organizzativo come una deriva (intendendo il consenso come fine e non come mezzo). Accantonando la morale è realistico affermare vi siano contesti e dinamiche in cui, per poter realmente incidere, occorre avere il coraggio di prendere decisioni anche in mancanza di un’unanime approvazione.
Vi è una sorta di ipocrisia generalizzata che porta a celare il potere edulcorandolo con formule più accettabili. Esempio ne è il potere condiviso, che però può esistere solo se chi lo detiene decide di distribuirlo per abilitare ciascuno a incidere. Anche in questo caso la motivazione non è filantropica, ma derivante da una mera analisi di costo-opportunità: esplicitarlo permette la creazione di una collaborazione trasparente in grado di durare nel tempo.
Pur lontani dall’esprimere qualsivoglia forma di nostalgia verso tempi in cui l’obbedienza era una virtù, l’autore vuole porre l’attenzione su un dato di fatto: se nel potere economico e coercitivo la relazione tra le parti è chiara e diretta, seppur a volte urticante, nella leadership questa chiarezza viene meno. Il filosofo Byung-chul Han osserva il passaggio da una società del dominio a una società della performance notando come nella seconda, caratterizzata dal consenso, non vi sia più distinzione tra vittima e carnefice. È anzi la vittima a diventare carnefice di se stessa.
Considerare il potere all’interno delle organizzazioni alla stregua di un tabù riduce la chiarezza decisionale e genera inefficienza: le decisioni, non riguardando più il contenuto, sono influenzate dalle cosiddette mappe di potere atte a definire chi decida cosa e quali strumenti abbia a disposizione per farlo. La mancanza di chiarezza può portare a decisioni improduttive o, addirittura, all’immobilismo: chi possiede le informazioni per prendere decisioni utili all’azienda non ha il potere di agire, mentre chi ha potere decisionale non dispone delle informazioni necessarie.
L’intento di Baiguini, che condivido, è dare una nuova luce al potere, mostrandolo come uno strumento indispensabile per generare qualsiasi cambiamento.
Concludo citando l’avvocato Gianni Agnelli, uomo che ha fatto del potere una sua virtù: “Sarebbe grave avere responsabilità senza potere. Io non sono un assetato di potere. Mi piace avere quel tanto di potere per assolvere i lavori che devo compiere“.
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