La sicurezza psicologica è molto importante nel mondo del lavoro e per rendere più competitive le imprese
Molte persone, di tutte le età e a tutti i livelli delle organizzazioni, non fanno sentire la propria voce perché non sono sicure che quello che diranno verrà ben accolto. Cosa vuol dire in concreto? Beh, che anziché parlare, le persone scelgono il silenzio.
Ad esempio: non condividono le loro idee perché temono che saranno criticate e rifiutate; quando hanno una domanda preferiscono non farla per evitare il rischio di essere giudicati ignoranti o stupide; se non sono d’accordo non lo dicono, perché hanno paura di urtare la suscettibilità altrui o di essere etichettate come “rompiscatole”; quando sbagliano preferiscono nascondere gli errori per evitare di essere considerate incapaci… E via così.
Non c’è niente da fare: noi umani, quando lavoriamo insieme, ce la dobbiamo vedere con la paura del giudizio negativo degli altri. È una cosa che non sopportiamo. Dunque, preferiamo non correre rischi o, detto diversamente, preferiamo non assumerci “rischi relazionali” come li chiama Amy Edmondson, professoressa e ricercatrice di Harvard che ha portato all’attenzione mondiale il concetto di “sicurezza psicologica”, quell’elemento che ci dà il permesso di far sentire la nostra voce, considerando il contributo di tutti un elemento indispensabile per il successo delle imprese e di tutte le organizzazioni.
La “sicurezza psicologica” dovrebbe essere presente e coltivata in tutti i luoghi di lavoro, dai Consigli di amministrazione alle Squadre operative, indipendentemente dal ruolo che svolgiamo.
La faccenda è grossa. Pochi elementi, come la sicurezza psicologica, hanno un impatto virtuoso (se c’è) o devastante (se manca) sulla qualità della vita professionale di tutti noi, e sulla qualità dei risultati che produciamo insieme agli altri.
Se manca, ha un impatto devastante sulla nostra vita professionale perché ciò che ci dà soddisfazione nel lavoro non sono le attività ripetitive, non è l’autoprotezione, ma il fatto di far sentire la nostra voce per contribuire all’obiettivo comune. Quando ci sentiamo invitati a fare sentire la nostra voce, quando diamo il nostro contributo e ci sentiamo benvenuti, quando condividiamo gli errori e, anziché essere additati come “colpevoli”, ci sentiamo aiutati a comprenderne la causa, le nostre energie si mettono in moto e noi ci sentiamo più appartenenti, più responsabili e molto più valorizzati. E anche se non sempre ciò che proponiamo verrà messo in atto, ci sentiamo ascoltati e presi in considerazione.
Succede questo. Abituandoci a parlare apertamente, confrontandoci in maniera trasparente e rispettosa, dicendo perché non siamo d’accordo o siamo in difficoltà, coltiviamo la sicurezza psicologica e, così facendo, migliorano i rapporti con le colleghe, i colleghi, e anche con i responsabili.
Sì, possono migliorare anche con loro perché, grazie ai nostri contributi, ricevono più stimoli, possono contare su soluzioni efficaci e prendere decisioni migliori. E tutti cresciamo, rendendo la nostra organizzazione più capace, reattiva e innovativa. In sintesi: più competitiva.
È per questo motivo che la presenza o l’assenza di sicurezza psicologica nei luoghi di lavoro ha un impatto virtuoso o devastante anche sulle performance collettive. Perché tutti noi abbiamo a che fare ogni giorno con questo dubbio: “lo dico o non lo dico?”.
Gli studi della Edmondson mostrano che la maggior parte delle persone scelgono il silenzio. Epidemia del silenzio, la chiama. Questo comportamento quotidiano agito da migliaia, milioni di persone, oltre a impoverire la vita lavorativa e rendere il contesto professionale poco stimolante, motivante e attrattivo, fa perdere competitività alle imprese e al Paese. Perché oggi, per evolvere e stare al passo con il mondo, serve l’intelligenza e la motivazione di tutti. E far sentire la propria voce è il primo passo in questa direzione.
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