Sembra necessario trovare un accordo sulle modifiche da apportare al Ddl sulla riforma dei contratti dei ricercatori universitari
Ragioniamo concretamente sulla questione del Disegno di legge sulla riforma dei contratti dei ricercatori universitari presentato dalla ministra Bernini che da troppo tempo è nell’occhio del ciclone, soprattutto politico piuttosto che ordinamentale. Il ddl ora è bloccato e non si prevede di riaprire a breve il suo iter parlamentare. Anche perché la Ministra si è detta più che disposta a raccogliere proposte di modifica in un confronto leale e costruttivo con esperti e parti sociali.
Sicuramente la mossa del Presidente Macron di muoversi da solo per attrarre i ricercatori allontanati da Trump in America è sgradevole e soprattutto è evidente si contrappone al piano del Governo italiano per attirare i ricercatori americani, poiché come Europa abbiamo il dovere di accoglierli ma anche l’opportunità di far crescere il nostro capitale umano esattamente come accadde negli anni Trenta, quando tanti scienziati dovettero lasciare l’Europa a causa delle leggi razziali e andarono in America dove contribuirono alla crescita scientifica e tecnologica che ebbero gli Stati Uniti.
Ovviamente la situazione è diversa da allora, ma le minacce del Governo Usa all’indipendenza degli atenei sono reali e stanno spingendo molti ricercatori a porsi il problema di dove continuare il proprio lavoro. Il piano presentato dalla ministra Bernini è un segnale importante, ma le dimensioni contano in un’epoca in cui le risorse non sono sufficienti. È evidente che dobbiamo puntare a un piano su scala europea perché abbiamo una grande opportunità per recuperare il ritardo in tanti settori, in particolare sull’intelligenza artificiale che peraltro le Università in collaborazione anche con il Corriere della sera insieme al Cineca hanno già presentato.
Viviamo un’epoca di profondi cambiamenti culturali, sociali e tecnologici. In questo contesto in continua evoluzione il sapere e la formazione permanente diventano strumenti fondamentali non solo per il progresso individuale, ma anche per la crescita collettiva della nostra società. La missione della nostra Università – promuovere l’accesso alla conoscenza, valorizzare i talenti e favorire lo sviluppo di competenze trasversali – si conferma oggi più attuale che mai perché abbiamo rafforzato la nostra offerta formativa, investito in tecnologie didattiche all’avanguardia e stretto nuove collaborazioni accademiche nazionali e internazionali.
È un non senso la contrapposizione negli atenei dei ricercatori “contro il precariato”. Il ddl 1240 Bernini introduce nuovi strumenti contrattuali che garantiscono anche l’assunzione dei dottorandi e dei giovani ricercatori con una flessibilità che la legge precedente ha reso rigido permettendo di partecipare a progetti internazionali: la proposta Bernini è stata presentata già un anno fa e sono state eseguite consultazioni e proposte per trovare soluzioni insieme e rafforzare le competenze e dare ai ricercatori certezze di diritto introducendo nuove categorie di ricercatori con contratti flessibili.
Nel 2022 il governo di Mario Draghi approvò la legge 79, che abolì i contratti dei ricercatori a tempo determinato di tipo diverso e gli assegni di ricerca per introdurre il cosiddetto contratto di ricerca con maggiori tutele, ma mai realizzato per mancanza di risorse. Considerato che nei prossimi mesi scadranno i contratti di migliaia di ricercatori a tempo determinato, i fondi sono sufficienti solo per pochi di loro e quindi non bastano per stabilizzare tutti i lavoratori precari. Dunque è necessario trovare un’intesa per sbloccare il ddl 1240 che contiene novità per le varie tipologie di ricercatori, come gli assegnisti, i ricercatori su progetto, e tempistiche legate all’obiettivo della formazione universitaria e l’assunzione a tempo indeterminato anche nel privato.
La legge Bernini, chiamata anche “riforma del pre-ruolo universitario”, vorrebbe introdurre nuove categorie di ricercatori: il “professore aggiunto”, con un contratto da tre mesi a tre anni; i ricercatori con un contratto post-doc, simile al vecchio assegno di ricerca; borse di ricerca junior e senior, sempre a tempo determinato. Per la maggior parte di queste categorie si prevede che i contratti vengano attivati con una chiamata diretta di chi gestisce i fondi di ricerca nazionali o internazionali, senza bandi.
Chi difende la riforma – i rettori, per esempio – sostiene che la possibilità di stipulare il solo contratto nazionale di ricerca limiti l’assunzione di ricercatori, perché quel contratto è poco flessibile e troppo costoso per le università. Secondo le assemblee di ricercatori e ricercatrici che negli ultimi mesi hanno organizzato proteste in tutta Italia, il problema è che i fondi per la ricerca sono semplicemente pochi e molti meno di quanti ne servirebbero. Ma in tempi di difficoltà finanziarie per tutti dobbiamo cercare di trovare comunque un accordo.
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