Nell’ultima settimana mi sono imbattuto in diversi articoli dove spiccava la tendenza di certi politici ed esperti vari a tentare di minimizzare l’impatto dell’epidemia cinese, sia in termini di emergenza sanitaria che delle sue eventuali ripercussioni economiche. Troverei quasi divertente leggere che le preoccupazioni per i produttori di smartphone o altri device siano eccessive in quanto le big del settore possono fare affidamento su forniture alternative di componenti da altri Paesi come India, Indonesia e Vietnam. Ancora meglio, quasi esilarante, che l’emergenza sanitaria potrebbe essere una buona alleata delle vendite auto perché molti cinesi potrebbero preferire l’acquisto di un autoveicolo all’utilizzo dei mezzi pubblici! Passino pure i tentativi di contenere il panico generale, ma forse associarli a un pizzico di sano realismo potrebbe renderli più efficaci.
Non voglio soffermarmi troppo sull’aspetto epidemico, perché non ho alcun tipo di qualifica o comprensione della materia, quindi mi limito a sottolineare quelle che ho personalmente ritenuto essere le notizie più rilevanti della settimana scorsa.
Escludendo il balzo del numero di contagiati a seguito della rocambolesca revisione del conteggio del Governo cinese, che ha comunque gettato ulteriore ombra sull’attendibilità della fonte ufficiale, dal giorno di San Valentino il numero di contagiati è salito di oltre 13.000 unità. Poi c’e’ stato il primo morto in Europa, un ottantenne cinese in Francia, e anche il primo contagio in Africa, quantomeno primo “registrato”, che porta la presenza del virus in tutti i continenti ad esclusione, almeno per ora, del Sud America. Per concludere l’inaspettato podio italiano in termini di contagio, peraltro raggiunto nell’arco di un fine settimana. In effetti tutte notizie incoraggianti!
Passiamo ora all’aspetto economico, dove personalmente mi trovo decisamente più a mio agio, e torniamo alle ottimistiche visioni sulle sovrastime delle conseguenze e sui presunti ritorni alla normalità cinesi dati per imminenti, se non addirittura già in atto. In effetti per coloro che seguono con attenzione il Dry Baltic Index, la settimana potrebbe risultare incoraggiante: l’indice ha finalmente interrotto la sua drammatica caduta verticale. In realtà più che aver invertito la rotta, sembra essersi quantomeno stabilizzato. Ma siamo sicuri che le preoccupazioni maggiori per le nostre economie siano legate al trasporto di materie prime secche? Siamo noi i grandi esportatori di carbone, minerali ferrosi e cereali verso la Cina? Perchè il BDI è di questo che parla, non di prodotti finiti, semilavorati o beni durevoli. Per quest’ultima serie di prodotti la distruzione della catena di fornitura mondiale dovrebbe sentirsi decisamente di più dalle nostre parti e non sono certo le navi porta rinfusa quelle che li muovono, bensì le navi portacontenitori.
Questo tipo di trasporti funziona in modo molto diverso rispetto allo shipping tradizionale, infatti è un mercato prevalentemente di linea. Prima di tutto risulta meno frammentato, ci sono soprattutto pochi grandi operatori che lo controllano, compagnie di linea come la danese Maersk, la svizzera MSC, la cinese COSCO e la francese CMA CGM per citare le prime al mondo. Più che sull’armamento è un mercato fondato sulla logistica e quindi meno esposto alla volatilità dei costi di noleggio. Per questa ragione è un mercato che va letto in modo diverso e per cui non esiste un vero indice di riferimento come il BDI.
Cosa ci dice in questi giorni il mercato delle porta contenitori, anzi, dei contenitori? Il 10 febbraio era già uscita la notizia che il coronavirus stava costando alle compagnie di linea 350 milioni di dollari alla settimana per un equivalente di 350.000 contenitori spariti dai traffici. In realtà poca roba se consideriamo che la capacità mondiale al 31 dicembre 2019 era stimata nell’ordine di quasi 22 milioni di containers, un calo inferiore al 2% del volume totale. Il problema è che queste sono le cifre di ieri. La situazione ha continuato a peggiorare e altri segnali lo testimoniano. Per esempio, secondo gli analisti specializzati di settore di Sea Intelligence il numero di linee cancellate tra Asia ed Europa è passato dalle 31 di due settimane fa alle 47 di quella scorsa. Niente male come tendenza per gli scambi considerando che dalla stima erano esclusi i viaggi già posticipati per il capodanno cinese.
In effetti, sempre la scorsa settimana, era uscita la notizia di una ULCV (Ultra Large Container Vessel) da 23.000 contenitori (TEU) che era salpata da Shanghai con soli 2.000 TEU pieni. Come se un furgone da 23 scatoloni partisse per un lungo viaggio con soli due da consegnare per intenderci. Giovedì ci ha pensato Alphaliner, un altro analista specializzato, a portare buone notizie per questo delicato settore e i numeri sono stati abbastanza impietosi. Dal capodanno cinese ben 1,67 milioni di TEU in uscita dalla Cina mancano all’appello, equivalenti a 1,5 miliardi di dollari di traffici. La situazione a livello locale nel Pacifico, che viene normalmente servita da navi più piccole, non sembra decisamente messa meglio visto che si parla di 50/70 navi ferme disperatamente in cerca di carichi.
Ecco spiegati i problemi della Apple che, anche ammettendo riapra i battenti degli stabilimenti d’assemblaggio in Cina, non potrà che faticare a ricevere le forniture di componenti dal Sud-Est Asiatico. Anche perché c’è un ulteriore caso che mette in luce un altro aspetto complicato della logistica, quello della mancanza di spazio per i contenitori refrigerati. Questo tipo di TEU viene utilizzato prevalentemente per merci deperibili, quindi gli alimenti, e per rimanere in temperatura necessitano di prese a cui essere collegati. Quando sono in movimento, sia sulle navi che sui camion, sono i vettori che alimentano la refrigerazione, ma quando sono fermi in porto necessitano di apposite prese che chiaramente sono di un numero limitato in quanto la sosta dovrebbe essere breve con ricambio costante. Al momento non ci sono più prese disponibili, perché nessuno passa a ritirarli. Questo non solo ci allerta sulla paralisi del traffico su strada cinese, ma sta creando una notevole indisponibilità di questi TEU nel resto del mondo. La conseguenza è un rincaro per chi li deve utilizzare, proprio quegli stessi esportatori che già sono alle prese con la drammatica contrazione della domanda cinese.
Inutile non aspettarsi un danno diretto a chi esporta prodotti alimentari in Cina quindi, per esempio gli Stati Uniti della famosa Phase One che già inevitabilmente saranno colpiti gravemente dal crollo di consegne. Di certo l’emergenza sta picchiando duro sul trasporto di contenitori, ma settimana scorsa è arrivata un’altra sorpresa che fa decisamente eco con quei cali della produzione industriale già registrati prima che la Cina si fermasse. Infatti, la già citata prima compagnia di linea del mondo A.P. Moeller-Maersk AS, considerata un barometro per il traffico globale di contenitori, ha rivisto al ribasso i guadagni dell’ultimo trimestre rispetto a quelle che erano le stime registrando una perdita di 72 milioni di dollari con ricavi scesi del 5,6%. Insomma le sirene anche qui già suonavano ben prima che arrivasse la pandemia per intenderci, anzi, forse questa aiuterà a rimpiazzare preoccupanti risultati poco brillanti per l’inizio del nuovo anno con altri ben peggiori, ma giustificati.
Ora farei qualche riflessione sui probabili effetti di questa crisi dalle nostre parti, infatti a informarsi un po’ sui volumi di traffico delle esportazioni ci si può fare un’idea limpida di chi rischia di farsi davvero male. L’Italia? Di certo non ne sarà immune, ma confrontandola con i numeri dei primi della classe direi che le vere preoccupazioni sono altrove. Infatti, non solo la produzione industriale tedesca è già caduta più a picco e più a lungo della nostra, ma in termini sia di importazioni che di esportazioni con la Cina a dir poco Berlino ci sovrasta. Stando ai dati del 2018, infatti, la Germania ha importato il doppio e soprattutto ha esportato più di 5 volte rispetto al nostro Paese.
Uno dei settori più colpiti è quello dell’automobile e sempre secondo i dati il 29% degli autoveicoli importati dalla Cina è tedesco. Si potrebbe anche ragionare sulle eventuali reazioni del loro secondo più importante esportatore dello stesso prodotto, gli Usa, visto che da un po’ sentiamo parlare di potenziali dazi che oggi potrebbero risultare ancora più convenienti per sopperire al crollo di domanda cinese. C’è chi sostiene che per l’Italia siano guai, perché la Germania è il nostro principale partner commerciale e questo potrebbe ricadere a cascata sulle nostre esportazioni, ma volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, magari, si potrebbe sfruttare opportunisticamente la situazione in tempi di riforma del Mes.
Infatti, per quanto sia vero che esportiamo molto nel loro virtuoso Paese, è altrettanto vero che importiamo decisamente di più. Insomma, situazione analoga a quella dei britannici che, intelligentemente, ci fanno leva nelle discussioni commerciali post-Brexit. Un’ulteriore riflessione più strutturale andrebbe fatta proprio ora, quella sull’intero modello mercantilista dell’Ue, perché è adesso che sta mostrando e mostrerà più che mai la fragilità a cui espone il Vecchio continente, in primis coloro che ancora oggi si arrogano presuntuosamente il diritto di dare lezioni di virtuosismo e dettare l’agenda politica dell’Unione.
Sorrido davanti a chi invoca un ulteriore inutile pronto soccorso della Bce, a nulla serve ulteriore liquidità a mercati già così drogati da continuare a salire davanti al cigno nero per eccellenza, il coronavirus della quarantena cinese. Quello che serve con urgenza è un cambio totale di marcia nelle politiche fiscali dell’Eurozona. Non è pompando, anzi, sprecando ulteriori risorse monetarie che possiamo e dobbiamo far fronte all’emergenza, ma allocandole in modo efficace, quindi investimenti e spesa che stimolino la maledetta domanda domestica dei nostri Paesi. Questo non solo aiuterebbe a compensare eventuali squilibri esterni futuri più o meno prevedibili come il coronavirus e le ritorsioni geopolitiche, ma soprattutto ridurrebbe la fragilità strutturale derivante da quella cronica dipendenza esterna che è il perno centrale del presunto successo mercantilista.