Mentre il coronavirus sta infettando l’Italia, certi paesi si vedono costretti a diventare lo spettro di loro stessi. Ad abbassare le serrande, prima di tutto, sono i luoghi della socialità e della cura: bar, negozi e piazze. Sono luoghi dove, nella maggior parte dei casi, è la gioia a contagiare: il dolore, invece, quando arriva ti isola.
All’inizio, quando si legge di un dramma, è sempre lo stesso: “Per fortuna la Cina è lontana, stavolta!”. La lontananza, però, di questi tempi ha cambiato la sua fisionomia: ciò che un tempo era lontanissimo, oggi è dietro l’angolo, tempo un volo di lavoro e quella lontananza diventa d’improvviso casa nostra.
Wuhan, città della Cina centrale, si sta gemellando con i nostri paesi in questo frangente storico: la lontananza rassicurante è diventata in un batter d’occhio vicinanza preoccupante. L’invisibile diventa visibilissimo, fino a mutare in panico generale: “Il panico è altamente contagioso – scrive Stephen King –, in specie dove nulla è noto e tutto è in divenire”. Dove l’altro – quello col quale ho bevuto un caffè, dal quale ho comprato materiali “made in China”, l’amico del pianerottolo accanto – è potenzialmente un rischio per me, adesso. Tutto è considerato rischioso.
La soluzione, dunque, è portare il domicilio dentro casa: vivere barricati, a misurarci la febbre, a spaventarci per il primo mal di testa, a guardare fuori dalla finestra il paese che si svuota. È precauzione, certo: va rispettata, osservata. Il fatto curioso, però, è che questa vita pare andasse di moda già da anni, anche senza l’assedio del virus: da soli in camera, con la mascherina in faccia per strada, carcerati dentro le mura per paura bestia dell’altro.
Viviamo in perpetua competizione con i microbi, reali o metaforici, ma non c’è nessuna garanzia che saremo noi a sopravvivere. L’altro, poi, ci fa paura ancora prima di un microbo. È come se, in tempi di salute fisica, avessimo fatto le prove generali per come si vive senza più la città attorno: da soli, mascherati, invisibili. Di come si vive quando cause di forza maggiore privano la civiltà del diritto alla spontaneità: vivere, infatti, è per forza di cose essere contagiati.
“Così non è vita!” mi scrive un amico che ha un ristorante in un paese attualmente “fantasma”. Non c’è vita senza l’altro, siamo fatti per vivere assieme. Eppure, a ben pensarci, una vita da soli – anestetizzati, invisibili, senza rapporti – era lo stile che da anni portavamo avanti senza farci caso: lo schermo del pc al posto della piazza, la messa in tv piuttosto che in chiesa, gli incontri via skype invece che il parlarsi porta a porta. L’abbiamo chiamata evoluzione della specie, fino a quando un virus, che manco ci ha chiesto il permesso di soggiorno, non è venuto ad abitare tra noi. E, senza tanti discorsi, ci ha mostrato in diretta come si vive senza nessuno accanto.
Il coronavirus è un nemico urgente da debellare, ancor prima di coloro che pensavamo essere i nemici più malaugurati: chi, oggi, può valutarne gli effetti finali? Fatto sta che, barricati in casa davanti al computer e alla tv per vedere come si sta lentamente avvicinando al nostro pianerottolo, capiamo che questa non è vita. Anche se, sotto sotto, una vita senza più nessuno attorno certe notti è un sogno ricorrente. Vedere in diretta gli effetti di un sogno, però, a volte fa maledire quei sogni.
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