Presto il governo di Pechino potrebbe scoprire che il “sogno cinese” è già finito. Le aspirazioni del ceto medio cinese di accedere ai beni che gli assicuravano standard di vita più elevati risultano già frustrate dal rallentamento della crescita e dal timore di una stagflazione. I dati macroeconomici sono eloquenti, la crescita registrata nel trimestre aprile-giugno rappresenta il risultato peggiore – shock pandemico del 2020 a parte – dal 1992.
Un quadro in cui non si è conseguito l’aumento previsto dell’1% ed è molto lontana la crescita del 4,8% registrata nel primo trimestre. Molti analisti hanno messo in relazione queste performance alla particolare congiuntura che sta vivendo la Cina, ancora alle prese con le rigide restrizioni che impone la politica zero-Covid. In realtà la crisi che sta affrontando la Cina è di natura strutturale ed è connessa alle specificità del suo modello di sviluppo.
In definitiva, l’economia cinese non è riuscita ad evitare la “trappola del reddito medio” di cui avemmo modo di parlare già nel 2020. L’obiettivo di trasformare un’economia, che è stata la fabbrica del mondo, in una pienamente sviluppata e con un vasto ceto medio benestante, si è scontrato contro le insolute criticità interne e il cambiamento del contesto internazionale. Gli ingenti investimenti indirizzati a sostenere la domanda interna non sono riusciti a riorientare in senso domestico l’economia nazionale e i consumi sono stati alimentati da una crescente propensione all’indebitamento, che in questa fase sembra aver raggiunto la sua massima espansione.
In un recente report della Banca Popolare Cinese il livello di indebitamento della famiglie è salito dal 18% del 2008 fino al 62,2% di fine 2020, un dato che la pandemia in atto ha sicuramente inasprito. Questo dato va messo in relazione alla progressiva finanziarizzazione dell’economia e alla crisi del mercato immobiliare, che sembrano essere due aspetti della stessa medaglia. Benché la Cina non sembra trovarsi ancora alle prese con una crisi sistemica, lo stato di salute del sistema bancario inizia a preoccupare, basti pensare che il suo rapporto debito/Pil continua ad aumentare dal 2009 e ormai si è attestato sul 264%. La crisi di insolvenza che ha interessato le banche rurali dello Henan potrebbe essere il primo tassello di una crisi irreversibile.
Le crescenti sofferenze delle banche di piccole e medie dimensioni – che in Cina sono quasi 4mila e valgono 14 trilioni di dollari – potrebbero investire anche le grandi banche che fungono da prestatori di riferimento. Inoltre, in un crisi sistemica, lo shadow banking, a cui si rivolgono in maggioranza le piccole banche per finanziarsi anche a costo di indebitarsi a tassi di interesse elevati, potrebbe semplicemente cessare di esistere. A bene vedere, l’economia cinese non ha ancora superato la crisi innescata dalla vicenda del colosso del settore immobiliare Evergrande, che, conviene ricordare, dopo aver recentemente posticipato ulteriormente di sei mesi la cedola di una sua controllata di ben 671 sul milione di dollari su bond onshore, ormai è a un passo dal default. Il sistema finanziario cinese, quindi, sembra essere alle prese con una crisi in cui sia il vertice della piramide che la base iniziano a mostrare crepe sempre più evidenti. Verrebbe da chiedersi come mai la Cina non sia ancora alle prese con un tracollo finanziario visto che famiglie, banche di piccole e medie dimensioni, governi locali e colossi come Evergrande sono a rischio di insolvenza.
Dal 2011 al 2020 l’economia cinese è cresciuta del 6,8% all’anno riuscendo così a sostenere l’espansione del suo sistema finanziario, ma il rallentamento in atto potrebbe rendere il debito insostenibile. In realtà, più che di rallentamento si dovrebbe parlare del fallimento del governo cinese di risolvere le criticità strutturali rappresentate dall’incapacità di riorientare l’economica in senso domestico e di operare un reale salto tecnologico che permetta al suo sistema produttivo di compiere un salto di qualità in termini di produttività e valore aggiunto. L’economia cinese dipende ancora tantissimo dal settore immobiliare – che vale il 30% del suo Pil – e l’esplosione della bolla in cui si trova infliggerebbe un colpo durissimo al consumo interno, che, come hanno fatto notare molti analisti, è inferiore al livello raggiunto da altre economie a parità di sviluppo. Detto altrimenti, l’economia cinese è rimasta ingabbiata nella “trappola del reddito medio”.
La strategia zero-Covid, in una situazione che precede un crisi sistemica, potrebbe essere lo strumento per controllare la crescente protesta dei risparmiatori cinesi che si trovano indebitati e con mutui insostenibili. Per impedire che la crescita del tasso d’inflazione – tempo fa avemmo modo di dire che l’inflazione importata rappresentava un rischio per l’economia cinese – dia un colpo mortale al settore immobiliare, il lockdown potrebbe rappresentare uno strumento tanto drastico quanto efficiente per contenere al massimo consumi e malessere sociale. In definitiva, più che la causa del rallentamento dell’economia cinese, la politica zero-Covid rappresenterebbe un argine alle conseguenze sociali del rallentamento dell’economia cinese e quindi l’effetto di una crisi di sistema.
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