Accadimenti recenti, rilevanti per il futuro del Paese, passano nell’informazione e nei media senza effettuare i possibili collegamenti. Che cosa hanno in comune la caduta della produzione industriale nel 2024, che si attesta al 3,5% su base annua, con un crollo del 7,1% solo a dicembre scorso, e l’emigrazione italiana che nel 2023 è stata di oltre 100mila unità (esattamente 107.806)?
Si potrebbe ritenere che il calo della produzione industriale abbia cause molteplici – come l’approvvigionamento delle materie prime, la questione energetica, tornata a farsi sentire, la recessione economica in Francia e in Germania – ma che la meno rilevante sia proprio il flusso migratorio italiano.
Quanto a questo, è ormai da tempo che il nostro Paese si sta svuotando. C’è stato un breve rallentamento negli anni della pandemia, ma dal 2022 l’emigrazione italiana ha di nuovo preso a crescere superando il 25% di ogni classe. Ciò significa che ogni anno oltre 100mila italiani in età compresa tra i 18 e i 49 anni hanno lasciato l’Italia, a volte anche con un doppio trasferimento dal Sud al Nord e dal Nord all’estero.
Cifre impressionanti senza considerare, poi, l’analisi di questo campione, ad esempio: circa un laureato su due del Sud, quando non ha studiato già in una università del Centro-Nord, è costretto a lasciare la sua regione per trovare lavoro. Tra il 2013 e il 2022 il Sud ha perduto 168mila giovani laureati. Più di recente, poi, anche il Nord sta perdendo giovani laureati residenti.
Le motivazioni sono anche qui abbastanza evidenti: nel Mezzogiorno le opportunità di lavoro sono minori e legate a bassi salari e con una qualità della vita, per servizi pubblici e opportunità, alquanto bassa; ma anche al Nord i salari sono molto più bassi di quelli praticati all’estero e quelli europei sono più bassi di quelli americani o anglosassoni, soprattutto per una manodopera specializzata e qualificata.
Una condizione particolare è quella della ricerca. La ricerca attrae i giovani più brillanti e qualificati, ma in Italia è scarsamente remunerata e i giovani laureati o con un dottorato di ricerca trovano più agevole iniziare l’attività di ricerca o continuarla all’estero, piuttosto che in Italia. Chiunque vada in giro per gli atenei europei o americani si imbatte facilmente in ricercatori o giovani docenti italiani, perfettamente inseriti, che ovviamente non hanno nessuna speranza di rientrare in Italia, dove esistono solo fantomatici programmi per il recupero dei “cervelli all’estero”.
Lo stesso può dirsi per le attività imprenditoriali, che si possono organizzare all’estero con poca burocrazia, piccoli capitali, buon credito bancario e accoglienza sociale; questo vale per la quasi totalità dei Paesi europei e per quelli di oltre Atlantico e, per un certo periodo, è valso anche per la Russia.
Se il problema principale della produzione industriale, come ha sottolineato anche Mario Draghi nel suo rapporto consegnato alla Commissione europea, è l’innovazione di prodotto e di manufacturing, la connessione tra i due fenomeni richiamati appare subito evidente ed è resa ancora più evidente dal match mancato tra la domanda di manodopera e l’offerta del lavoro.
Per quanto ancora l’industria italiana può contare sui bassi salari e come può rimediare alla carenza crescente della manodopera qualificata, soprattutto in un trend di emigrazione come quello descritto?
La perdita di capitale umano, al Sud come al Nord, renderà del tutto improbabile una ripresa della produzione industriale, perché mancano imprenditori, capitali, ricercatori, professionisti, manager, quadri aziendali e operai qualificati. Questa perdita non può essere compensata dall’immigrazione straniera, perché i numeri sono tali da non compensare la perdita di popolazione dell’emigrazione e ciò a prescindere se gli atteggiamenti della politica verso l’immigrazione straniera siano giusti o meno.
Se la Francia e la Germania dovessero riprendersi, e la domanda di beni e servizi in Italia ripartire, potrebbe accadere che il nostro sistema industriale non fosse in grado di andare oltre una certa soglia. Perciò la situazione descritta, fatta di perdita di capitale umano e mismatch del mercato del lavoro, comporta che la ripresa non possa mai superare una certa soglia, per mancanza di “capacità”.
Può la politica fare qualcosa?
È bene precisare che nel breve periodo la politica, quale che sia il colore, è impotente rispetto all’economia, salvo che per eventuali interventi emergenziali (come nel caso delle bollette e delle accise sui carburanti), che comunque non sono sostenibili nel tempo. Di conseguenza, l’aumento dell’occupazione degli ultimi anni non è merito del Governo Meloni, così come questo crollo della produzione industriale non è direttamente demerito suo.
Certamente la politica potrebbe avviare, a partire da una certa congiuntura economica, programmi e politiche pubbliche di un certo respiro. Infatti, solo in una prospettiva di medio o lungo periodo le decisioni della politica possono avere un certo ruolo e, peraltro, dovrebbero essere condivise tra tutte le forze politiche e tutti i livelli di governo, statale, regionale e locale, e cioè non dovrebbero essere politiche pubbliche di una maggioranza, ma politiche istituzionali dell’intera Repubblica. Ma questo non sembra proprio il caso italiano e l’attuale governo ha la responsabilità di non avere pensato a nulla che possa rimediare alla situazione considerata.
Per comprendere bene cosa si intende, possiamo richiamare quanto è accaduto in Germania ai tempi della Wiedervereinigung. Infatti, con la riunificazione tedesca i cinque Länder costituiti nel territorio della ex DDR furono al centro di un accordo con i Länder occidentali e il Governo federale per un programma decennale poi prolungato di altri dieci anni per rendere omogenea la condizione delle due aree del Paese e, grazie anche ai fondi strutturali europei, adoperati in modo accorto e completo, nell’arco di questo tempo le due parti della Germania si sono realmente unificate.
Le Regioni orientali sono state ammodernate e industrializzate, le città rinnovate, il territorio orientale tedesco ha costituito un baricentro per investimenti infrastrutturali e molti Konzern (complessi industriali) hanno ritenuto vantaggioso spostarsi in questa parte della Germania. Persino l’emigrazione interna, che era andata nel primo decennio da Est verso Ovest, ha avuto una inversione di tendenza da Ovest verso Est. Ricordo, per averla vissuto personalmente, che la prima immigrazione, cioè quella del primo decennio, nelle Regioni orientali tedesche è stata il trasferimento dall’occidente di ricercatori, manager d’impresa, tecnici e maestranze qualificate.
Per tornare all’Italia, dove la politica perde tempo su continue polemiche inutili e dannose, che distraggono l’attenzione, occorre che i partiti politici si fermino un istante e, oltre ad accordarsi per spartirsi i posti, come è avvenuto con i giudici costituzionali, abbiano la capacità di raggiungere accordi seri su alcuni punti essenziali, come la formazione, la ricerca, il mercato del lavoro, l’innovazione industriale e infrastrutturale, la qualità dei servizi pubblici a partire dalla sanità, i trasporti, la mobilità, ecc.
Possiamo sperare che, con questa classe dirigente, ci si possa riuscire?
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