La crisi tra Algeria e Mali si inasprisce in modo sempre più preoccupante, trasformando il già instabile e vulnerabile Sahel in una polveriera diplomatica: due nazioni un tempo legate da relazioni ambigue e controverse oggi si scambiano accuse pesantissime, mentre i cieli si chiudono e gli ambasciatori fanno ritorno in patria con la fretta di chi teme una guerra.
La contesa diplomatica ha avuto inizio in seguito a un drone abbattuto – un semplice oggetto metallico che, cadendo tra le dune del Sahara, ha scatenato un conflitto verbale degno delle peggiori crisi della Guerra Fredda – con l’Algeria che sostiene che il velivolo, armato e in missione di sorveglianza, abbia violato il suo spazio aereo di 1,6 km, una distanza infinitesimale che però basta a giustificare l’uso della forza.
Il Mali, invece, risponde alle accuse con dati geografici opposti: il relitto è stato ritrovato 9,5 km a sud del confine, in territorio maliano, e Algeri avrebbe quindi commesso un atto di aggressione. Ma la vera bomba è stata lanciata da Bamako, che senza mezzi termini accusa il governo algerino di “sponsorizzare il terrorismo internazionale”, una dichiarazione dura e diretta che riecheggia le tensioni post-11 settembre, quando ogni sospetto diventava arma politica.
Ma, al momento, nessuna prova è stata ancora fornita a sostegno di questa tesi, lasciando spazio a interpretazioni dubbie e a domande senza risposta. E se il dibattito pubblico e politico si infiamma con le più stravaganti teorie complottiste, gli analisti ricordano che non è la prima volta che i due Paesi si scontrano su questioni di sicurezza.
Già nel 2022, infatti, tensioni simili erano emerse dopo presunti sorvoli illegali, ma mai la situazione era degenerata fino a questo punto. Ora, con il Sahel già destabilizzato da colpi di Stato e jihadismo, questo nuovo attrito rischia di far saltare ogni fragile equilibrio.
L’Algeria nega, ma il Mali insiste: “Il terrorismo si combatte, non si finanzia!”
“Non siamo più disposti a tollerare le provocazioni”, tuona un comunicato congiunto di Mali, Burkina Faso e Niger, tre Paesi uniti da un destino comune di instabilità e colpi di Stato. La reazione è stata immediata: richiamo degli ambasciatori, chiusura dello spazio aereo, toni da ultimatum, e Algeri, che pure si professa vittima di una campagna diffamatoria, risponde con la stessa moneta, ritirando i suoi diplomatici e rinviando la nomina di un nuovo ambasciatore in Burkina Faso.
Il problema è che, in questa partita, nessuno è davvero innocente: l’Algeria – da anni alle prese con gruppi jihadisti ai suoi confini – ha sempre giocato un ruolo controverso nella regione, oscillando tra cooperazioni e sospetti di possibili doppi giochi strategici.
Il Mali, invece, dopo il golpe del 2021, si è avvicinato sempre più alla Russia, amplificando il timore occidentale di un nuovo Afghanistan africano, e nel bel mezzo di questo quadro allarmante troviamo la popolazione civile, stanca di guerre, droni e retorica vuota.
Ma c’è dell’altro: fonti interne al governo maliano suggeriscono che dietro questa escalation ci sarebbe anche il tema spinoso delle risorse naturali: il confine conteso, infatti, è ricco di uranio e gas, e alcuni osservatori avanzano l’ipotesi che lo scontro sul drone sia solo un pretesto per riaprire vecchie dispute territoriali.
In questo panorama, l’ONU tace, l’Unione Africana brancola nel buio e la Francia – storica potenza coloniale nella regione – osserva da lontano con preoccupazione, consapevole che un nuovo focolaio di violenza nel Sahel potrebbe avere ripercussioni globali.