Una persecuzione incontrollata sta lentamente annientando le minoranze cristiane in Pakistan, tra violenze di qualsiasi tipo, stupri e conversioni forzate, e proprio mentre il mondo celebrava la coincidenza tra Ramadan e Quaresima come occasione di discussione pacifica e conciliazione, nelle periferie industriali del Punjab si assisteva a orrori inauditi.
Waqas Masih, ventiduenne operaio cristiano, picchiato a sangue per essersi rifiutato di abiurare la sua fede; Shumaila, giovane madre violentata da tre energumeni davanti al marito solo perché scoperta con un crocifisso al collo, episodi deplorevoli ma che restituiscono anche all’osservatore meno attento un quadro di violenza ormai consolidata, che strumentalizza la blasfemia – accusa infamante e spesso pretestuosa – in una condanna a morte sociale.
Il paradosso è amaro: nella terra natia di Akash Bashir, eroe della fede che, nel 2015, si rese martire per salvare i fedeli durante un attentato, i cristiani vivono come cittadini di serie B, aggrediti, maltrattati, privati di ogni forma di dignità.
Le statistiche dell’Ong Center for Social Justice parlano di 2.120 casi di violenza contro le minoranze religiose negli ultimi 35 anni, con un picco del 65% dopo l’irrigidimento delle leggi antiblasfemia nel 2020, ma, come ribadisce il senatore cattolico Khalil Tahir Sindhu, la Costituzione pakistana dovrebbe garantire – almeno sulla carta – uguaglianza e protezione a tutti i cittadini, indistintamente e senza che la fede rappresenti un deterrente.
Una promessa tradita ogni volta che una fabbrica licenzia un operaio cristiano, ogni volta che una ragazza viene strappata via alla famiglia e costretta a convertirsi, ogni qualvolta la polizia archivia un’aggressione come “disputa privata”.
Cristiani in Pakistan tra aggressioni e resistenza: la fede che sfida l’odio
Quella dei cristiani pakistani è la storia di una resistenza emotiva silenziosa, che trae origine nella storia coloniale, quando le comunità dalit – gli intoccabili del sistema castale – trovarono nel battesimo una via di riscatto sociale; ma oggi, quello stesso battesimo è diventato un marchio d’infamia, in un Paese dove l’islamizzazione forzata degli anni ’80 ha prodotto abomini giuridici come l’articolo 295-C, che prevede la pena di morte per chi “offende” il Corano.
“Non servono nuove leggi, ma il coraggio di applicare quelle esistenti”, è la denuncia di padre Aslam, mentre nella sua parrocchia allestisce in fretta e furia rifugi temporanei per ragazze minacciate di conversione forzata.
Il caso della giovane Shumaila è il simbolo di ciò che sta accadendo: stuprata non per vendetta, non per rapina, ma per il semplice fatto di esistere come cristiana, una violenza disumana che riporta alla memoria le pagine più buie del fondamentalismo talebano e che dimostra come l’odio religioso si nutra d’impunità.
Se da un lato il governo pakistano tenta maldestramente di ripulire la sua immagine internazionale, la vera sfida si pone sul piano culturale: ricostruire quel civile equilibrio di convivenza che, prima delle derive estremiste, faceva del Punjab una terra di tolleranza e dialogo interreligioso; ma finché un semplice crocifisso al collo sarà considerato come una provocazione anziché un diritto chiaro e imprescindibile, la strada verso la vera essenza della pace sarà lastricata di sofferenze e dolori inascoltati.