Salvatore Crisafulli conosce perfettamente il caso Englaro. E ne soffre, perché mentre gli altri ne parlano, sa bene cosa vuol dire essere in stato vegetativo permanente. Nel 2003, in seguito ad un incidente stradale, entra in coma. Ne esce, incredibilmente, due anni dopo, nel 2005, quando il caso Terri Schiavo divide l’Italia. E racconta la sua sofferenza, cieca e sorda, quando sentiva i medici dire che la sua morte era solo questione di tempo, mentre lui, prigioniero del proprio corpo, non riusciva a muoversi, a comunicare, ma capiva tutto. Ora Salvatore parla attraverso un computer, scrive, risponde alle lettere. Difende, strenuamente, quella voglia di vivere che per due anni, come dice lui stesso, è rimasta dissimulata nella “prigione” del suo corpo immobile. Lo racconta Marcello, fratello di Salvatore.
Qual è la storia personale di Salvatore?
Salvatore ha avuto un gravissimo incidente stradale, l’11 settembre 2003. Era in moto con suo figlio, quando un furgone li ha investiti. È stato un disastro. Entrambi in coma, il bambino si riprende dopo una settimana, ma non è così per Salvatore a cui vengono diagnosticati danni irreversibili alla corteccia cerebrale, con coma di quarto grado. Il responso dei medici è stato vegetativo permanente.
È facile immaginare la vostra disperazione. Che cosa avete fatto?
Noi abbiamo sempre lottato per poter dare a Salvatore l’assistenza dovuta, siamo sempre stati alla ricerca di un centro di alto livello che potesse aiutarlo, siamo stati accanto a lui giorno e notte.
Qual era il suo stato?
Salvatore era in coma. Totalmente paralizzato, non muoveva gli occhi, che rimanevano fissi a guardare il soffitto. Era nutrito con la Peg, che consiste di una sonda infilata nello stomaco e di una pompa che provoca la nutrizione. Era impossibile comunicare con lui. Lo abbiamo portato dappertutto, in Italia e all’estero. Tutti i medici sentenziavano “stato vegetativo permanente”. In tutti i centri trovavamo le porte chiuse, il suo stato era così grave che non si trovava il modo di ricoverarlo. Abbiamo girato l’Europa inutilmente.
Perché cercavate un centro?
Per tentare una riabilitazione, che aveva costi altissimi, e per non lasciarlo in una casa di cura o in una RSA, dove le persone vengono lasciate e quasi dimenticate. In Austria un luminare ci disse che lo stato vegetativo era irreversibile e limitò l’aspettativa di vita di Salvatore a quattro, cinque anni al massimo. Aveva la tracheotomia e sarebbe morto, questa la previsione, per insufficienza respiratoria. Poi venne il caso Terry Schiavo. Eravamo scoraggiati e io stesso minacciavo di staccar la spina se non ci avessero aiutati. È stato in quei mesi che siamo riusciti a far conoscere il caso di Salvatore in tutta Italia. La svolta è stata nell’aprile del 2005, quando la dott.ssa Cecilia Morosini ebbe il coraggio di cambiare la diagnosi, certificando che il paziente era “sveglio e attento” ed eseguiva in qualche modo ordini semplici. In maggio fu possibile avviare una terapia riabilitativa, nell’ospedale San Donato di Arezzo.
Perché non avete disperato di salvarlo?
Noi, in famiglia, in qualche modo ci eravamo fatti la convinzione che Salvatore fosse cosciente. Facevamo vedere ai medici che quando lo chiamavamo e io gli rievocavo momenti particolari del passato, che potevano suscitare emozione, a Salvatore venivano le lacrime. Era chiaro allora che capiva. Pian piano gli occhi di Salvatore cominciarono a muoversi. Dopo due mesi di terapia intensiva, Salvatore uscì dal coma. Chiedemmo anche la testimonianza di estranei che vedessero Salvatore, volevamo essere sicuri di non ingannarci. Abbiamo avuto allora la certezza che era cosciente.
Poi cos’è accaduto?
Che Salvatore ha iniziato a comunicare, attraverso un comunicatore a scansione. La cosa stupefacente, e angosciante al tempo stesso, è che Salvatore ci ha raccontato che sentiva e capiva tutto. Durante il coma si trovava in una camera e si ricorda il calendario aperto su marzo e aprile del 2004, quindi il suo ricordo risale a sei, sette mesi dall’incidente. Questo vuol dire che quando anche a noi sembrava inerte, in realtà era cosciente, ma pur volendo non riusciva a comunicare perché era prigioniero del corpo, o locked in, come si dice.
Come si è evoluta la sua condizione?
È migliorato moltissimo, ha fatto appelli a Welby, è intervenuto sul Caso Englaro, dicendo che Eluana non è una foglia, un vegetale, ma una persona che vuole innanzitutto vivere. Ora Salvatore non parla ancora, ma muove il capo, e comunica attraverso il comunicatore a scansione. Ne abbiamo di due tipi, uno ottico e uno per il movimento della testa. Sceglie le lettere che gli interessano, può posizionarle e comporre le parole. Nel suo libro “Con gli occhi sbarrati”, Salvatore è riuscito, in undici mesi di fatica, a raccontare tutto.
Cosa si sentirebbe di dire lei, che ha vissuto lo stesso dramma, al padre di Eluana?
Capisco che ci divide una scelta radicale. Noi siamo per la vita, per accudire la persona facendo il possibile, con tutto quello che l’assistenza è in grado di offrire. Mentre la sua scelta mi sembra opposta. Noi stessi gli abbiamo rivolto un appello: la sua battaglia giudiziaria l’ha vinta, ora “conceda la grazia” a sua figlia. Tanto le persone che vorrebbero accudirla ci sono.
Che cosa le ha fatto trovare, in momenti così difficili, la forza di andare avanti?
La speranza. Negli Stati Uniti ci sono camere iperbariche per l’ossigenoterapia avanzatissime, che noi non abbiamo. Vogliono Salvatore per curarlo. Abbiamo deciso di portarlo, starà in cura a Miami per quattro o cinque mesi e speriamo che possa servire. Ma tutto questo non lo si fa se non si è fortemente convinti che siamo fatti per vivere e non per morire. E Salvatore non si stanca di ripeterlo: “io volevo e voglio vivere, non morire”.
Salvatore ha seguito le ultime vicende? Cosa dice?
Certo. Guarda spessissimo il televisore, ha seguito tutto il caso Englaro. Ammesso che sia vero che Eluana ha detto, anni fa, che non avrebbe mai voluto vivere nello stato in cui si trova, ora non può confermarlo, ma non si può nemmeno escludere che abbia cambiato idea. Salvatore soffriva nel non poter smentire i medici che lo paragonavano ad un vegetale. E avrebbe voluto gridare che avevamo ragione noi, quando contro ogni evidenza eravamo assolutamente certi che era cosciente e capiva tutto.
Una persona nelle condizioni di Salvatore non è libera di voler morire?
Io credo che non esistano persone che vogliono morire, si muore solo per disperazione. Quello che ho avuto modo di vedere, stando accanto a Salvatore, è che se una persona ha l’affetto e tutto l’amore possibile dei propri cari, e la presenza costante delle istituzioni, in grado di far avere i mezzi che uno non può darsi da solo, non può voler morire. È la solitudine che porta alla disperazione, non la malattia o l’infermità.
Lei cosa chiede allo Stato?
I soldi per fare l’ospedalizzazione domiciliare, per assistere il malato a casa propria senza dover ricorrere a ospedali e altre strutture.
Ha saputo dell’ultimo atto di indirizzo del ministro Sacconi, con il quale ha detto che va garantita l’alimentazione e l’idratazione in tutte le strutture convenzionate?
Lo stanno contestando, ma a mio avviso ha fatto bene. Tutte le strutture sanitarie fanno capo a lui, no? E allora? Se Beppe Englaro vuol far morire sua figlia, lo faccia in casa propria. Non sono un avvocato né un giudice, ma mi pare che il senso delle sentenze che ci sono state sia questo. O sbaglio? Se lei va in un reparto di rianimazione – lei per dire chiunque – e vede una persona in stato vegetativo, è ovvio che non vorrebbe mai vivere in quel modo. Sfiderei chiunque. Ma poi, per vivere, si arrampicherebbe a tutto, questa è la realtà. A noi Salvatore sarebbe andato bene anche se non avesse più capito nulla, perché gli vogliamo bene.