Abbiamo letto tutti la storia di Sara, chiamiamola così anche noi, una ragazza di buona famiglia che vive vicino a Trento, dove sognava di andare in cerca di un lavoro, per rendersi indipendente, per coronare una storia d’amore che voleva portare avanti contro tutto e tutti. Già, per la famiglia è stato un colpo. Lui è albanese, e non è proprio quel che si dice un bravo ragazzo. Precedenti penali, chissà come campa, pare alzi spesso e volentieri le mani. Va bene la libertà e l’amore che è cieco, ma Romeo era un’altra storia, avranno lecitamente pensato i genitori. Solo che Sara ha 16 anni. Tanto peggio, dice il buon senso, lasciare una ragazzina a fare fuitina con un tale stinco di santo? Solo che Sara è incinta.
E qui il buon senso comune prende due strade diverse e opposte. Da una parte, il senso di un padre e una madre, ovvero, quel figlio ti legherà a quel tipo per sempre, tu sei una sventatella, togliamoci il problema, interrompi la gravidanza; dall’altra chi pensa che si tratta di una vita, e dunque anche se la storia è difficile, dolorosa, la vita va salvata, sempre, e vedi mai che quella sciocchina metta la testa a posto, si affezioni al suo bimbo e metta in riga pure il neo papà. Tra una ragione e l’altra c’è Sara, che di abortire non ne voleva sapere: ama il suo ragazzo, forse proprio perché è sbandato, perché è un uomo, anche se ogni tanto la prende a sberle; voleva tenersi il bambino, e fare famiglia con lui.
La storia, raccontata per sommi capi, ci dice però altro: che la ragazzina non è nuova alle gravidanze, e manco agli aborti. Le hanno già fatto prendere la Ru486, per un figlio avuto da chissà quale padre. Ovvio che i genitori non ce la facciano più, e sconfortati dal rilievo zero dato alle loro ragioni, si siano rivolti al giudice, che imponesse alla figlia di liberarsi dall’ingombro di quell’embrione che porta in pancia. Chissà il giudice, pover’uomo. In genere bisogna convincere padri e madri, costernati dalla gravidanza precoce delle loro figliole, a non opporsi, a lasciarle abortire in pace; perchè quel minimo di natura umana che alberga in noi ci spinge a volerlo tenere in braccio, un nipotino, a prendersene cura, a farlo crescere. Qui la situazione si capovolge: e giustamente se l’aborto è un diritto, dice la legge, non può essere un dovere, non può nascere da filiale obbedienza.
Ogni parola e ogni fatto in questa storia è mal posto, mal interpretato. Perché l’aborto non è un diritto, ma una tragica scelta, per un’idea di libertà sbagliata, che sottomette al capriccio l’esistenza di una persona; perché la ragione e il torto si mescolano, e fino a confondere le idee, e far credere sbagliato quel che è giusto. Ovvero, nessuno può chiedere di far morire qualcuno, sottomettendosi alla legge. Ma tant’è, siamo così assuefatti a voler decidere della vita e della morte, dei bambini, dei nostri vecchi, che non ci si fa tanto caso. Dunque resta la testardaggine di questa ragazzina sbandata, la sua caparbietà incomprensibile e inquietante: lui è giovane, non ha lavoro, non ha famiglia, finirà male, ti picchia, probabilmente ti lascerà col tuo bambino, non ti vuol certo bene. Oppure no, cambierà, troverà in te tutto l’affetto e la voglia di amare che non ha mai avuto, e tu con lui.
Perchè parliamoci chiaro: che genitori hai avuto e hai, Sara? Separati, anzitutto. E quanto sei stata sola per andare in giro a darti al primo che passa, per vedere usato il tuo corpo, da chi ci ha fatto del sesso e da chi ti ha messo al mondo, e dover subire il dolore, l’umiliazione di una pillola? Chi lo sa quanto hai sanguinato tu dentro, e non solo per l’aborto chimico? Non hai un’amica, Sara, un maestro, una persona che ti vuol bene? E’ giusto ribellarsi, è giusto dire sì alla natura, che ti metteva in cuore quel desiderio di essere madre, per avere qualcuno da stringerti al seno, da cui ricevere del bene.
La storia finisce come doveva finire: vincono i grandi, vince il senso dei più, quello più comodo. Il giudice non ha fatto a tempo a prendere il caso in mano, ad affidare Sara, sempre troppo tardi, a una famiglia generosa, con un papà e una mamma che l’accompagnassero, la aiutassero a crescere, lei e il suo bambino. I genitori biologici (perché si è padre e madre quando si educa e si ama), l’hanno convinta, dicono, e hanno risolto la cosa in famiglia. Non sappiamo se con un’altra pillola o con un intervento, un’anestesia totale che evitasse a Sara di vedersi perdere il bambino nel sangue. Si sono tolti un bel problema: dopo il temporaneo accordo che li ha riuniti pe far abortire la figlia, possono riprendere ad odiarsi in pace, a vivere infelici e contenti. “Nessuna imposizione, vittoria della ragionevolezza”, hanno detto. Come no.
Quanto è abusato questo termine, ragione. Pensare che si erge a suo strenuo difensore uno che tiene cattedra e scrive libri, che pontifica dalle platee televisive, un matematico, tal Piergiorgio Odifreddi. Ha titolo per infilarsi in una storia così drammatica, così delicata? Repubblica questo titolo glielo dà. Repubblica, questa agorà di sobri dibattiti, questo faro di intelligenti nell’oscurantismo becero del paese berlusconizzato. E così leggiamo che “chi nasce ha il diritto al benessere, all’autorealizzazione”. Un diciottenne albanese non può garantirla. Magari fosse stato iscritto alla Bocconi, chissà. “In mancanza di adeguate prospettive i tribunali dovrebbero intervenire per impedire la procreazione… Uno Stato degno di questo nome dovrebbe vigilare perché essa sia responsabile, o imporre la cessazione della gravidanza”.
Chiaro, semplice. Dunque: nella pianificazione necessaria dello Stato facciamo fuori i bambini che nascerebbero poveri: quelli che potrebbero nascere “diversi”, ammalati, o che potrebbero diventarlo, c’è l’analisi del dna a garanzia; quelli brutti, quelli maschi e/o femmine, a seconda di quanto serva, in Corea e in Cina ci riescono benissimo (gay, zingari? Per ora no, non sta bene, sono categorie protette. Ma si sa mai…) Si chiama eugenetica. La praticavano i geniali aguzzini di Hitler, tanti anni fa. Erano dei geni, qualcuno anche scienziato. La ragione la usavano benissimo.