Che cosa abbiamo fatto della Grazia che abbiamo ricevuto? Ecco una bella domanda. Se la pone nella sua lettera a Repubblica Julián Carrón per chi ha fede, e magari una fede militante, esercitata nella fratellanza di Comunione e Liberazione. Ma se la pone anche chi non ha fede, eppure ha sempre creduto che la fede fornisca una corazza migliore e diversa per resistere alle tentazioni del mondo. Non perché si debba pretendere troppo dall’uomo che crede, presumere in lui una coerenza tra il suo essere e il suo dover essere che dal laico, e ancor di più dal miscredente, non ci si aspetta.
No, so anch’io che Formigoni è umano, troppo umano, esattamente come me, e che io non ho titolo a chiedergli di non esserlo solo perché lui crede, e crede fortemente. So anch’io che le opere contano quanto e più della coerenza personale per un cristiano che opera nel mondo, magari in politica, per renderlo migliore, e che il bene fatto a molti non vale meno se se ne è fatto di più a pochi. La giustizia non è di questo mondo. A noi non resta che fare del nostro meglio: fai quel che devi, accada quel che può.
Mi fanno orrore quelli che parlano con ribrezzo dei peccati degli altri, del tutto ignari dei propri, che vedono la pagliuzza nell’occhio dell’avversario e non la trave nel proprio, come tutti coloro che predicano una morale sessuale spregiudicata, ma poi si scandalizzano della spregiudicatezza sessuale, o sorvegliano la correttezza della moglie di Cesare sorvolando su quella della loro moglie. In realtà, dunque, ciò che mi ha colpito nella lettera di don Carrón è il dolore. La sofferenza. L’umiliazione. La costernazione. La richiesta di perdono.
Anche presumendo infatti che gli uomini di Comunione e Liberazione finiti in queste settimane nelle cronache del malaffare pubblico siano tutti innocenti di fronte alla legge, e anche riconoscendo che alcuni di loro, come Formigoni, non sono neanche interpellati dalla legge per i loro comportamenti pubblici, avevo trovato triste e pericoloso quel fare spallucce, rispondere con arroganza, sottrarsi al dovere dell’umiltà, o della revisione critica, quando tutto intorno a te ti dice che da qualche parte devi aver sbagliato, “qualche pretesto dobbiamo averlo dato” come scrive don Carrón. Perché questo almeno me lo aspetto da un uomo che ha fede: che soffra se sbaglia, e, se ha un ruolo pubblico, che soffra pubblicamente, confermandomi così l’inconciliabilità etica tra ciò che pensa e sente e ciò che eventualmente ha fatto, magari anche solo per distrazione, superficialità, quella sacrilega sensazione di onnipotenza che ti prende quando hai il potere, e ancor di più quando lo hai troppo a lungo.
Ho visto che, dopo la lettera di don Carrón, Formigoni ha mostrato pubblicamente questa sofferenza e il suo pentimento. La questione della sua responsabilità politica la risolveranno come credono gli elettori, alle prossime elezioni. Non è affar mio, e forse neanche nostro, intendo dire di noi che facciamo informazione. Ma di una cosa vorrei essere rassicurato. Che da domani chi milita nella fratellanza di Comunione e Liberazione sia diventato più sensibile ai rischi connessi con il lungo esercizio del potere, e consigli a tutti i suoi fratelli che lo esercitano di avvicendarsi in quell’esercizio, riducendo così il duplice pericolo, di cui ha scritto Galli della Loggia, di cadere in una pretesa di egemonismo o in una pratica di separatezza.
Anche se non sempre si può praticare la virtù, bisogna almeno predicarla, e riconoscere quando la si è tradita. Don Carrón ha fatto un gran bene al suo movimento, dicendolo con tanta nettezza e chiarezza.