Un anno nella vita di una terra può essere quasi niente, oppure anche quasi tutto.
Un anno fa, ad esempio, nella Bassa modenese, che ancora resisteva, pur con grande sforzo, alla crisi battente in tutto il mondo, era inimmaginabile pensare che da lì a poco tutto sarebbe cambiato. Con il terremoto dello scorso maggio, ci siamo scoperti fragili, vulnerabili e bisognosi. Ci siamo anche scoperti, col passare dei mesi, a pensarci abbandonati a noi stessi. Ci sono persone che ancora non sanno quando rientreranno nelle proprie case, la ricostruzione l’ha messa in moto solo chi aveva capitali propri, la grave situazione politica ed economica in cui versa il Paese ha di molto affievolito le luci della ribalta.
Se abiti in città e non hai amici sul posto, capita che ti dimentichi anche che le macerie ci sono ancora, finché non ti succede di leggere qualcuno che scrive in rete: “Oggi abbattono le scuole vecchie di Concordia. Mi fa male il cuore”. Oppure non vai a trovare qualcuno a Cavezzo, sotto la pioggia insistente di un mezzo inverno che non vuole cedere il passo alla primavera, per vedere che le macerie sono ancora lì. E ti senti raccontare del vecchio ospedale di Concordia, o di qualche casa colonica che si squaderna di qualche centimetro in più ogni giorno che passa, nel tragitto casa – lavoro in cui ancora l’occhio non si abitua alle macerie. E questa sofferenza sorda rimane nascosta nella terra bassa delle pianure, come nella terra bassa del cuore che sente il bisogno di non crollare.
“C’è, in tutta la paura e l’angoscia, soprattutto la certezza che Dio è con noi…Così siamo noi rispetto a Dio: piccoli, fragili, ma sicuri nelle sue mani, cioè affidati al suo Amore che è solido come una roccia. Questo Amore noi lo vediamo in Cristo Crocifisso, che è il segno al tempo stesso del dolore, della sofferenza, e dell’amore”. Questo ci aveva detto Benedetto XVI il 26 giugno 2012, vicino a Rovereto di Carpi.
Nell’imminenza della Pasqua, nell’imminenza della Croce, la Chiesa ci ricorda che un Dio è venuto a dividere con noi anche le macerie delle nostre esistenze, non solo quelle delle nostre case e della nostra storia.
E’ per questo che, in questo Venerdì Santo, il vescovo della diocesi di Carpi, monsignor Francesco Cavina, prima della tradizionale messa in Cattedrale coi giovani, aprirà una Via Crucis che partirà alle 20,15 dal municipio di Mirandola, una delle città più martoriate dal sisma, per proseguire nelle vie del centro. Un gesto semplice, senza clamori, ma anche nella consapevolezza che questa è la parola più vera che si può osare per ripartire. E che, anche nella situazione più terribile, il male non vince, la morte non vince.
“Questo è il bene che Gesù fa a tutti noi sul trono della Croce. La croce di Cristo abbracciata con amore mai porta alla tristezza, ma alla gioia, alla gioia di essere salvati e di fare un pochettino quello che ha fatto Lui quel giorno della sua morte”, ci ha ricordato Francesco nella Domenica delle Palme. E allora sì, seguiamo una Croce perché, anche quando intorno la terra è ferita, non siamo fatti per la morte, ma per la vita. Seguiamo la croce tra le case rotte di Mirandola, tra i fasti crollati di una reggia rinascimentale, per la promessa di resurrezione che è già nel buio dei tre giorni, che è nel grande Sabato della Storia.
In un bellissimo testo a due voci che porta proprio questo titolo, il cardinale Ratzinger e quella del pittore americano Bill Congdon si confrontarono col buio di quel giorno interminabile in cui Cristo è nel sepolcro, e la terra è in silenzio. “Dipingo su nero perché il dipingere non è rappresentare una luce che c’è e basta ma piuttosto partecipare della luce che sta divenendo dal buio – e tu la segui fino a quel punto o qualità di luce che è quella che ti ha afferrato”. Fino a quel punto in cui la notte comincia a farsi alba. Tra le macerie e la speranza, a camminare dietro quella qualità di luce che ci ha afferrato, nella promessa della prossimità della gioia pasquale.
(Mariadonata Villa)