DON GIUSEPPE DIANA/ Don Patriciello: noi serviamo Dio e l’uomo, ma lo Stato dov’è?

- La Redazione

Don MAURIZIO PATRICELLO, parroco di Caivano, che da anni lotta al fianco dei cittadini contro la malavita organizzata, ricorda don Giuseppe Diana, ucciso 20 anni fa dalla camorra

esecuzione-omicidio-mafia-ndrangheta-camorra-sangue-violenza Un delitto di Mafia (Infophoto)

20 anni fa la Camorra assassinava don Giuseppe Diana. Il suo impegno antimafia quotidiano dava troppo fastidio e così, il 19 marzo 1994, il 35enne parroco di Casal di Principe fu ucciso da un sicario nella sua chiesa di San Nicola di Bari, mentre si preparava a celebrare la messa. Il suo più celebre scritto è “Per amore del mio popolo”, un documento datato Natale 1991 e diffuso in tutte le chiese di Casal, contro il sistema criminale che soffocava e tuttora tiene imbrigliata la Campania (ma non solo). A 20 anni di distanza, Don Maurizio Patriciello, parroco di Caivano, attivissimo sul fronte Terra dei fuochi, che da anni lotta al fianco dei cittadini contro la malavita organizzata, lo ricorda e lancia un nuovo grido d’aiuto allo Stato.
 
20 anni fa la camorra assassinava don Giuseppe Diana.
Domani (oggi, ndr), alle 7,30, diremo la messa che don Peppe non celebrò quella mattina. Io fui uno dei primi ad arrivare dopo che fu ucciso. Mi avvisarono e io corsi da lui, alla sua parrocchia. trovandolo riverso nel sangue.
 
Che cosa è stato don Giuseppe?
È stato un modello incredibile, che rimane. Gli eroi e i santi martiri mi mettono a disagio: io amo le persone normali, come Peppino. Non si atteggiava, ma aveva la schiena dritta. Lui è nato a Casal di Principe e lì divenne parroco. Si rese conto subito che la camorra era una brutta bestia e che bisognava osare di più per sconfiggerla. La chiesa ha sempre predicato contro ogni tipo di prepotenza, ma forse si doveva fare di più. Ecco, Peppino lo ha fatto: ha dato fastidio, ha scosse le coscienze, e per questo ha pagato.
 
In questi due decenni qualcosa è cambiato?
Da quel giorno la nostra vita è cambiata e tutti noi facciamo i conti con il martirio di Giuseppe Diana. Tanto è stato fatto, ma altrettanto è da fare. I capi storici del clan dei Casalesi sono tutti in galera, ma – come dico e scrivo spesso – la camorra è un albero maledetto che affonda le radici maledette in un terreno maledetto, che è la cultura camorristica. Alla camorra danno fastidio tutte le persone libere: ha bisogno di pecore che si accodano e obbediscono. Ora, se non prosciughiamo questa palude, questo albero troverà sempre nutrimento. Bisogna sottrare loro la linfa.

Cosa manca ancora?
Ci vuole, anzitutto, una presenza forte dello Stato. Mi dispiace davvero dirlo, ma tante volte lo Stato non c’è, non c’è proprio. E quella che in tanti chiamano omertà è in realtà paura: in un posto dove lo Stato è assente e il camorrista onnipresente, non tutti hanno il coraggio e la vocazione al martirio, soprattutto le mamme e i papà che sanno quali rischi corrono i propri figli. Ci vuole assolutamente una presenza massiccia delle istituzioni. Faccio un esempio…

Prego.

A Casal di Principe il 60% delle abitazioni non ha l’acqua potabile, perché sono abusive. Io mi chiedo: ma lo Stato dove stava mentre questo paese cresceva? Perché non è intervenuto? Al di là del fattore legale, dal punto di vista sanitario è gravissimo.
 
La malavita trova terreno fertile in un territorio in cui scarseggia il lavoro…
Esattamente. Anche qui, lo Stato non può essere distante. Mi rendo conto di toccare un tasto enorme, ma se non c’è lavoro per le persone la disperazione porta ad azioni sbagliate. L’altro giorno hanno arrestato nella mia parrocchia una mamma che faceva un po’ di manovalanza: una donna che chiede, per dare da mangiare ai propri figli, di poter guadagnare qualcosa con il sudore della propria fronte, senza trovare niente. Cosa deve fare? I suoi figli devono morire di fame? E alla fine si rassegna a fare qualcosa di non legale. C’è qualcosa che non va. Così come per la Terra dei fuochi.
 
Altra mortale conseguenza del malaffare.
La camorra ha stretto dei patti scellerati. Io ho incontrato Carmine Schiavone e gli ho detto: ma che razza di camorristi siete se avete permesso a tanti industriali del Nord Italia di sversare nelle nostra campagne, le più belle del mondo, rifiuti tossici che hanno avvelenato la nostra terra e i nostri figli. I patti, però, si stringono in due: se non c’era l’industria disonesta e una politica pigra e ignava, che ha fatto finta di non vedere per tanti anni, ci saremmo evitati questa piaga.

Lei prima ha citato un episodio di vita quotidiana: vedere ogni giorno i tantacoli della camorra incuriosire e accalappiare qualcuno e qualcun altro cercare di divincolarsene.
Chi ci entra è difficile che ne esca, praticamente impossibile. È un sistema maledetto, è come una trappola per topi. Nel momento in cui si vengono a sapere tante cose non si può mica uscirne così facilmente. Chi, invece, ha la grazia di non cascarci dentro, ha due possibilità: la prima è quella di andare per la sua strada, facendo finta di non vedere, ma chi ha dignità e amore per la libertà non può più tollerare; oppure impegnarsi sul campo. Dopo la morte di Peppino sono nate decine e decine di associazioni e comitati di volontari che vogliono cambiare il mondo. Ma, ripeto, per quanto siano bravissimi ragazzi pieni di volontà, c’è bisogno del sostegno dello Stato.

Recentemente si sono registrati omicidi?
La camorra non scherza. In questi giorni nella nostra diocesi (Aversa, in provincia di Caserta, ndr) sono state uccise sei persone, cinque delle quali bruciate. È qualcosa che fa rabbrividire. Tanta gente, davanti a queste cose, prova un paura immobilizzante più che legittima.
 
Lei è un prete che combatte in prima linea contro la camorra; una missione che si somma a quella della fede. Come vive giorno dopo giorno?
 

Come poterlo dire…noi siamo coscienti che la nostra è una chiamata. Io sono un prete, come Peppino e don Pino Puglisi. Questa mattina eravamo in 200 preti riuniti nella chiesa di don Peppino, a pochi passi da dove fu assassinato, ognuno con il desiderio di servire Dio e l’uomo. La vocazione si traduce in tanti impegni: ognuno dà il suo contributo, correndo tanti rischi e con la paura. Ma ripeto, non mi piacciono gli eroi. Mi piaccono i santi come Giuseppe che hanno vissuto tutta la loro vita facendo il bene. Il Vangelo professa la libertà e la dignità dell’essere umano: non si può essere neutrali. Bisogna prendere posizione contro le ingiustizie, anche se a qualcuno non piace.
 
In contesti così difficili, quanto è alto il valore della testimonianza cristiana?
Altissimo. Io a volte provo a immaginare i nostri paesi se non ci fossero le parrocchie. In tante realtà sono l’unico punto di aggregazione e l’unico momento di solidarietà. Con questa crisi, che ha portato così tante persone alla fame, sono diventate indispensabili per un sostegno non solo umano, ma anche economico.
 
Dal 19 marzo 1994, quanti passi in avanti sono stati fatti in questi anni?
Tanti, tantissimi. Adesso ci sono le “Terre di Don Peppino Diana”, le esperienze di tanti giovani e sono state fatte molte conquiste circa i beni confiscati (questi ultimi dovrebbero essere meglio gestiti) e dal punto vista penale: tutti i capi storici dei Casalesi sono in galera col 41 bis.
 
E la mentalità?
È cambiata anche la mentalità. Qualche mese fa abbiamo fatto un corteo per le strade di Casale contro i rifiuti industriali che ci stanno avvelenando: c’erano migliaia di giovani. Fino a qualche anno fa era cosa impensabile. L’indomani incontrai Giorgio Napolitano e gli riportai quello che lessi su un cartello esposto nel corteo: “La camorra ordina, lo Stato esegue”. Una scritta che mi impaurì. Ecco, noi dobbiamo convincere questi giovani che non è più così.

Come?
Per farlo c’è una sola possibilità: lo stato deve dimostrarsi più forte della camorra e liberarsi di tante persone che fanno fare brutta figura alla civile società. Meglio un delinquente per la strada che un politico corrotto e colluso. Tanta strada è stata fatta, ma tanta è ancora da fare: io sono però arciconvinto che se questa terra fosse stata sostenuta dallo Stato, a livello di occupazione, tanti giovani non sarebbero caduti in trappola.

(Fabio Franchini) 





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