STUDENTE SUICIDA/ Ammazzarsi per una bravata, ma i deboli siamo noi genitori
Uno studente liceale di Genova si è ammazzato perché si sentiva colpevole per una bravata fatta a scuola e temeva la punizione dei genitori. Davvero non ci riguarda? MARCELLA MANGHI

All’ora di pranzo – proprio mentre aspettavo mia figlia tornar sola da scuola e ingannavo l’attesa con la rassegna stampa del giornale – non ho potuto fare a meno di immedesimarmi in un’altra madre. Una mamma di Genova che – a differenza di me – oggi non vedrà tornare il proprio figlio quattordicenne: un ragazzo liceale che si è lanciato nel vuoto. Dietro al tragico gesto si pensa ci sia stata la paura di essere punito dai genitori per una bravata compiuta a scuola insieme a dei compagni e per la quale era stato scoperto. Sembra delle scritte sui muri.
“E chi di noi non ha un figlio che scrive sui muri?” mi son detta sfilando via il ragù dal microonde. Poi subito dopo: “Per fortuna che i miei figli son più forti. Loro non si consumerebbero mai in un gesto così drammatico!”.
Illusa.
La verità – basta che ci rifletta un attimo in più – è che al posto di quel ragazzo, su quel trampolino di cornicione ci poteva benissimo essere uno dei miei figli. Furfanti – son certa – dalla giovane coscienza più sporca di un tovagliolo macchiato di sugo. Su quel cornicione ci sarebbe potuto trovare il maschio ad esempio, quello che tre giorni fa ha “accidentalmente fatto cadere” una bottiglietta di fanta-amara sullo zigomo di un compagno di basket; oppure la bella-e-brava liceale che – reduce da una scaramuccia serale – ieri ha sabotato la sacca di nuoto della sorellina costringendola ad asciugarsi dal cloro della piscina con un k-way del Decathlon.
Certo, esistono colpe e colpe. Molte punibili con un digiuno da playstation, alcune con un’abbuffata di scuse, ma nessuna imperdonabile.
Forse stiamo crescendo ragazzi sempre più liberi di scegliere, ma sempre meno liberi dalle conseguenze di queste scelte. Ragazzi che si sentono definiti dai vestiti che indossano, dai voti che prendono, dalle sigarette che fumano. Ma anche che si sentono definiti in maniera irrimediabile dai propri errori. Ragazzi che fanno coincidere il loro essere con i loro meriti e le loro mancanze. Che non distinguono più una bravata passeggera da un fatto grave, ma soprattutto non percepiscono l’abisso d’infinito che esiste fra l’azione e la persona, il peccato di cui si possono macchiare (condannabile) e il peccatore che lo commette (perdonabile).
Forse, i deboli non sono loro. Forse i deboli in fondo siamo noi genitori, che – per indolenza o miopia – non siamo sempre capaci di dare una priorità a quello che comunichiamo loro. Prima ancora di educarli a non scrivere sui muri, forse dovremmo insegnare loro a leggere sotto le apparenze: per quanto al momento uno sbaglio possa sembrare un macigno, l’uomo non sarà mai definito da questa sua colpa e – comunque – non esiste al mondo un errore più grande della propria vita.
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