La forza centripeta delle città sta ridisegnando le geometrie dello sviluppo internazionale, tanto che si stima che tra il 2010 e il 2015 si vada aggiungendo ogni giorno alla popolazione urbana una media di 200 mila persone. Ne è un’evidenza il fatto che un secolo fa solo il 20% della popolazione mondiale viveva in una città, mentre nel 2010, per la prima volta nella storia, la popolazione urbana ha superato quella rurale e nel 2050 il 70% dei 9 miliardi di abitanti vivrà in una città. Ma questa rappresentazione quantitativa, seppur impressionante, sembra dare la percezione di un’evoluzione in cui i destini delle nostre comunità non sono nelle mani delle istituzioni locali ma in quelle degli Stati a cui appartengono o in quelle delle aggregazioni sovrastatuali.
In altri casi, concentrando l’attenzione sullo sviluppo trainato da megacities come Shenzhen dove la sola Apple ha uno stabilimento di 400.000 dipendenti, si ha l’impressione che il protagonismo debba vedere escluse città come quelle del Vecchio continente, o ancor più del nostro Paese che si portano il retaggio storico di una frammentazione territoriale. Oggi nessuna città italiana rientra nelle prime 60 al mondo per popolazione e si stima che nel 2050 l’Europa potrà vantare solo una città che superi i 10 milioni di abitanti su 27 nel mondo.
In realtà, Enrico Moretti, economista italiano che insegna a Berkley, nel saggio “La geografia del lavoro” (apprezzato dallo stesso presidente Obama), evidenzia come il protagonismo e le scelte assunte a livello locale facciano la differenza. Moretti spiega infatti come due piccole città della California, Menlo Park e Visalia, abbiano potuto avere un’evoluzione diametralmente opposta pur appartenendo allo stesso stato. Due città che distano meno di 300 chilometri l’una dall’altra assunte agli onori della cronaca l’una, Menlo Park, perché attrae capitali e risorse, tanto che Mark Zuckerberg vi ha insediato il quartiere generale di Facebook, e l’altra per il peggioramento progressivo degli indicatori di competitività e vivibilità.
Allora è importante riflettere in termini strategici su come i nostri territori, e in particolare le nostre città, possano affrontare questa sfida per non rimanere emarginate dai grandi processi di sviluppo internazionale, garantendo continuità ai processi di coesione sociale urbana che in molti casi le hanno caratterizzate. Ed è, altresì, necessario domandarsi come i nostri sindaci possono affrontare gli sconvolgenti mutamenti socioeconomici, sapendo affrontare la riconversione industriale, le eredità di degrado ambientale, il problema della mobilità, dell’interconnessione e dell’accessibilità, l’emergenza residenziale, il welfare urbano, ecc. con piglio da protagonisti e non con piccole iniziative difensive.
Per far questo molte città europee, anziché farsi affogare da programmazioni di dettaglio che ci costringono a elaborare decine di prescrittivi piani particolareggiati, fantasiosi negli acronimi (Pil, Pru, Piu, Cdq, Prusst, Psms, Pas, Put, Peep, Pgt, Pip, Ppgr, ecc.) quanto nei temi che trattano (uno per tanti: il Piano regolatore illuminotecnico comunale – Pric), si sono attivate per elaborare piani strategici. Con questo approccio e con le dovute metodiche città come Londra, Lyon, Barcellona, ecc., ma anche alcune esperienze nazionali, hanno mobilitato le energie economiche, professionali, culturali dei loro territori.
Questo approccio ha permesso anche di catalizzare il capitale sociale del territorio, i vari stakeholder e soprattutto di ridisegnare il modello di governance pubblico e le stesse architetture istituzionali e organizzative delle amministrazioni coinvolte. È stato anche il modo per dare sostanza a una democrazia partecipativa e per la politica la strada per recuperare credibilità.
E questo è quanto si metterà a tema nell’iniziativa della Fondazione San Benedetto che ha chiamato 5 testimonials di eccezione a discuterne il 5 febbraio a Brescia (clicca qui per il programma dell’incontro).