Il XXXIII canto del Paradiso c’entra con l’Italia e con la politica di oggi? In altre parole: il vertice della bellezza, lo splendore dell’umano-divino, la meta ideale dell’agire, il significato di tutto, è cosa utile per affrontare la realtà o no?
Dunque, ieri: Dante Alighieri al Senato e l’Italicum alla Camera. Strepitosa cartolina dall’Italia politica 2015 che cerca, strabica, uno straccio di futuro plausibile. Nell’emiciclo dei deputati Renzi porta a casa un tassello del futuro (suo e del suo partito) con una legge elettorale che tutti ti spiegano senza fartela capire, ma nessuno ti toglie l’impressione che la vision che ha dentro (Dio stramaledica l’inglese) è una veduta corta d’una spanna. Nell’altro emiciclo, quello in fase terminale, il combinato disposto messaggio di papa Francesco-performance di Roberto Benigni fissa in tre parole una possibilità di futuro nient’affatto corto d’una spanna. Le tre parole sono speranza, riscatto, bellezza; Pontefice e Premio Oscar le cavano dal Sommo Poeta, nato in Firenze 750 anni fa.
Tra parentesi. La concomitanza Dante-Italicum curiosamente segnala anch’essa, semmai ve ne fosse bisogno, il nostro strano e strabico bicameralismo perfetto (?) che da 70 anni ci ingorga gli spazi delle decisioni. Abbiamo due Camere con poteri, in particolare interdittivi, pressoché identici, costruiti dal punto di vista non del governo del paese, ma dell’opposizione. Cultura cattolica e cultura comunista, di venerata memoria, andarono agevolmente a braccetto nel dopoguerra nel diffidare del potere esecutivo e nel mettergli mille lacci e lacciuoli e tagliole ai garretti con l’idea di scongiurare per sempre ogni pericolo autoritario. Sta di fatto che ci sono voluti 70 anni per decidersi a togliere di mezzo l’organismo replicante della Camera, visto che tra l’altro il Duce non è risorto.
Nel frattempo cultura cattolica e cultura comunista sono giunte a significare assai poco nella società, e pressoché nulla nella politica. Le due grandi appartenenze popolari che hanno fatto, nel bene e nel male, l’Italia del secondo novecento si sono estinte come dinosauri (la tradizione liberale è rimasta sempre marginale). Hanno generato nel tempo un personale politico complessivamente di buon livello attraverso un percorso di formazione serio fatto di valori ideali, cultura, tirocinio sociale, impegno sindacale, amministrativo, politico. Sappiamo tutti come l’89 della fine del comunismo e il ’92 di Mani pulite abbiano mandato a carte quarantotto quel vecchio sistema; e vediamo che nel successivo vuoto colmato alla meglio dal berlusconismo e dall’antiberlusconismo non sono state poste le basi per la formazione di una nuova classe dirigente complessivamente all’altezza — ideale, culturale e politica — della situazione. Vuoi il riscatto? Attàccati all’Italicum.
Se l’ho presa un po’ alla larga, è per rimarcare che per il nostro futuro Dante, profeta di speranza, vale più dell’Italicum, o di vattelapesca quale altro latinorum. Ma pochi, ahimè, ci credono.
Nel 1972 nell’Università Statale di Milano regnava il viva Marx, via Lenin, via il compagno Giuseppe Stalin, e la cultura doveva essere funzionale alla rivoluzione proletaria. Certi corsi venivano perciò sostituiti dalle Rap, ricerche alternative parziali. Così lo studio di Dante previsto dal Corso istituzionale di Letteratura del professor, mi pare, Salinari, fu cancellato e sostituito con quello degli appunti di Gramsci raccolti sotto il titolo Letteratura e vita nazionale da Einaudi nel 1950 dopo il vaglio inquisitorio di Palmiro Togliatti. Gramsci è una testa fina della nostra storia e merita certamente d’essere studiato. Ma non invece di Dante.
Il fatto è che molta classe dirigente e politica si è formata su quella forma mentis che, finiti gli ardori rivoluzionari, sa solo rivolgersi all’utile immediato, cancellare la memoria e così negarsi il futuro.
Perciò sia doppiamente lode a Sua Santità e a Sua Benignità che hanno bruciato d’emblée gli inutili e astratti formalismi celebrativi per andare dritti al centro dell’attualità. L’attualità in cui viviamo, ha detto il papa nel suo messaggio, è fatta di tante selve oscure da cui non sappiamo come uscire, e siam qui disperati; Dante è profeta di speranza perché compie il percorso di ragione e di fede che conduce al riscatto. L’attualità l’ha richiamata da gran marpione — eh, perché Marpione lo è, ma bene così — anche Benigni dispensando, prima di leggere Dante, battute sui senatori al capolinea, sui premier fiorentini dal brutto caratteraccio, sul Pd… Partito di Dante, per additare a tutti il Dante gran politico occupato anima e corpo dalla politica che amava, quella fatta di servizio e di fantasia costruttiva. Per additare anche il Dante poeta creatore della lingua futura che si legge e si capisce, caso unico nella storia universale della letteratura, anche 700 anni dopo. Dante, la fede, la bellezza, la grammatica, la lingua di un popolo. Dante il poeta delle radici e perciò della via d’uscita per il futuro: che non è una svicolata di sguincio ma un’ascesa verso l’alto. O un pellegrinaggio storico teso a ciò che l’uomo sommamente desidera, che Dante ha magistralmente espresso e che la voce emozionata di Benigni ha efficacemente incarnato nell’emiciclo che a volte ci fa tanto feroci: “L’amor che move il sole e l’altre stelle”.
Post Scriptum. Su Youtube gli spezzoni di Benigni al Senato registrano ciascuno visitatori dell’ordine delle centinaia. Un’esibizione di J-Ax 751mila e rotti; un video in home page che si chiama Peli Pubblici (giuro, non so cosa sia), 271.927. Ma allora era meglio… Gramsci!