Alla fenomenologia della Coca-Cola oggi si aggiunge un nuovo brillante paragrafo. Trussardi, celebre marchio di moda italiano, infatti ha vestito le celebri bottiglie contour e le lattine con un packaging a tiratura limitata che verrà venduto in modo un po’ esclusivo solo in pochi punti a Milano. Ma che ci fa un marchio di moda per grandi portafogli “addosso” alla bottiglia della bevanda più democratica ed egualitaria del mondo, un marchio per pochi insieme ad un brand di tutti? Ovviamente la risposta vera la si trova solo nelle imperscrutabili logiche del marketing.
Ma anche senza conoscerla qualche ipotesi si può agilmente avanzarla. La bottiglia più famosa del mondo, che ha compiuto i suoi primi 100 anni, era stata disegnata dai creativi della Root Glass Company, un’azienda di vetro dell’Indiana, ispirandosi alla forma di una fava di cacao. Con quel design la Root Glass aveva sgominato il campo dei dieci concorrenti che avevano risposto al bando lanciato dalla casa di Atlanta per «realizzare una nuova bottiglia, che sia una nostra creatura», come aveva annunciato il numero uno della compagnia Harold Hirsch. «Non stiamo costruendo solo il presente della Coca-Cola. Stiamo costruendo il futuro della Coca-Cola». La bottiglia ispirata da una fava di cacao venne però subito abbinata a ben altre, e ben più affascinanti forme: quelle dell’attrice e cantante Mae West.
Che oggi un marchio di moda scelga di vestire una bottiglia che nell’immaginario collettivo era stata sempre affiancata alle magiche curve di un mito dello spettacolo, è cosa dunque che ci può stare. La bottiglia “contour” aveva conquistato il pubblico perché al tatto trasmetteva un effetto di sensualità, e la sensualità è anche una delle componenti che rendono glamour e attrattivo un brand di moda. Ovviamente bottiglie e lattine marchiate Trussardi con le sagome slanciate del simbolo della casa, il levriero, danno un valore aggiunto di eleganza molto italica a quell’oggetto iperglobale. Ne fanno un oggetto cool, tanto per dirla con un altro dei termini (per il sottoscitto insopportabili…) che impazzano nel lessico anglo-modaiolo.
Tuttavia questa operazione, più che di Trussardi, ci racconta ancora una volta l’intramontabile mito della Coca-Cola. Della sua straordinaria flessibilità nell’adattarsi ad ogni condizione geografica, sociale e persino culturale. Di assorbire tutte le critiche che le vengono rivolte. È emblema, da una parte, di un mercato pervasivo “conquistatore dei desideri”, ma insieme anche bene e “sollievo” alla portata di tutti. «Una Coca-Cola è sempre una Coca-Cola», scisse Andy Warhol in una pagina che è passata alla storia dell’antropologia del 900. «Non c’è quantità di denaro che possa farti comprare una Coca-Cola più buona di quella che l’ultimo dei poveracci si sta bevendo sul marciapiede sotto casa tua. Tutte le Coca-Cola sono sempre uguali e tutte le Coca-Cola sono buone. Lo sa Liz Taylor, lo sa il Presidente degli Stati Uniti, lo sa il barbone e lo sai anche tu».
La Coca-Cola è oggetto del desiderio rispetto ad uno dei bisogni più “basici” dell’uomo, la sete. Ma è anche capace d’accendere la fantasia e l’immaginario, a volte alto, di tantissimi creativi ed artisti. Non a caso ad Expo la casa madre di Atlanta ha portato nel suo padiglione un piccolo museo dedicato a se stessa dove figurano calibri 90, come Andy Warhol o il nostro grande Mario Schifano: questa rassegna in bianco e rosso è certamente la cosa più interessante (e più pertinente) che a livello artistico si sia vista ad Expo.