Caro direttore,
viviamo tempi interessanti e pieni di sfide, che ci muovono a porsi domande sempre nuove sul senso del nostro essere cristiani e su come testimoniarlo oggi, nel nostro Paese. Essere cristiani in un mondo in cui tutto, tutto dice il contrario chiede un a fondo sull’essere, su che cosa c’è al fondo di me, su che cosa fonda la mia consistenza, in ogni circostanza.
Non è facile rispondere. Non è facile perché è come se fossimo chiamati a riconoscere che questo Mistero incarnato, accaduto, deve continuamente riaccadere e può farlo nella misura del mio sì e non per un agire. A meno che questo agire non peschi esattamente in questo ultimo e radicale sì, senza difese, senza ma e se. Come ha detto papa Francesco ai partecipanti al pellegrinaggio a Loreto: l’acqua che si ferma ristagna e si inquina; l’acqua che scorre può riprendere vigore e purezza.
Se questa non è solo una pia premessa per poi volgerci all’agire, catapultandoci altrove, allora la domanda sul senso della testimonianza deve restare viva: amore o valori? Combattere contro l’ingiustizia o abbracciare? Aborrire leggi ingiuste (quali che esse siano, e non è difficile identificarle) o giudicare con attenzione e verità un contesto in cui anche leggi “giuste” non trovano più alcun terreno per attecchire, per essere effettivamente rispettate, per guidare verso il bene comune?
Personalmente, mi sto convincendo che il contesto in cui viviamo ha talmente perso il senso dell’evidenza (il crollo delle evidenze) che solo da un’evidenza si può ripartire. Come la si riconosce? Come la si coltiva? Come la si alimenta nella speranza che torni ad essere significativa non solo per me e per il mio vicino ma per tutto il contesto in cui siamo inseriti, e si dilati fino a diventare feconda di bene (e quindi anche di leggi giuste, rispettose dalla vita, della famiglia, della carità misericordiosa e capace di perdono)?
In un passato anche recente vi è stata, nel nostro Paese, una mossa forte, che ha mirato a cambiare o a sostenere impianti normativi (leggi) che avevano una forma rispettivamente errata (vedi legge sull’aborto) o condivisibile (vedi legge sulla fecondazione artificiale); non si può cessare di giudicare il contenuto di quelle leggi, non si può confondere il giusto con l’ingiusto. Questo mai. Da giurista, questo è un compito fondamentale così come fondamentale è la ricerca dell’argomentazione che documenti il giudizio che si dà. Occorre un lavoro, non le grida, perché siamo in un tempo in cui l’argomentazione, anche la più sofisticata, non parla più al cuore dell’uomo (figuriamoci quelle superficiali, legate a linguaggi del passato).
E, dunque, per essere poi anche specifici, come giudicare chi manifesta contro l’aborto e rischia di venire bloccato, contro la più elementare libertà di manifestazione del pensiero? Non vi possono essere dubbi. Il potere pubblico non può né deve ostacolare la manifestazione di un’opinione, fosse anche la più minoritaria. Se voglio bruciare la bandiera americana (o italiana), posso farlo; non è un’istigazione a delinquere, bensì una manifestazione di pensiero (anarchico) e ha pieno diritto di cittadinanza. Noi non vogliamo essere meno di così se ci preme la libertà.
Dubbi, al più, possono sorgere — ma occorre essere cauti anche in questo — sull’opportunità della forma di questa manifestazione, che mostra tutta la tragicità dell’aborto proprio a chi lo sta subendo (donna e bambino insieme, ché di due persone si tratta, due e non una — come vorrebbe chi fa invece dell’aborto un diritto acquisito per la sola donna, anch’essa vittima di un’ingiustizia vestita da libertà). Non è in questione qui la forma della legge: è un giudizio da elaborare, su cui riflettere. Ci si può (ci si deve) chiedere, tra amici e tra fratelli, se questo sia il modo migliore per testimoniare il valore della vita. La domanda è reale, dettata dalla tensione a cercare davvero quello che è meglio, qui ed ora. Schierarsi farebbe male, male a chi fa questa manifestazione e male a chi non la fa, sperabilmente non per chiudersi in sagrestia ma per un senso ultimo di lontananza dalla forma espressiva scelta, che va anch’essa rispettata, non tacciata di viltà, semmai considerata con attenzione e aiutata nelle ragioni — non facili perché “nuove” — che la sostengono.
In questo lavoro occorre seguire ed immedesimarsi, immedesimarsi nelle parole sempre chiare di papa Francesco, nel suo sguardo, nel suo cuore di padre. Non alimentare le contrapposizioni mediatiche. Essere aperti ad un discorrere franco. A me, personalmente, questo interessa molto. E, al fondo, credo ci interessi poco che la gente si convinca delle nostre idee, quand’anche giuste (e vivaddio se non lo sono) ma che possa tornare a riconoscere la realtà così come è, che vedano l’enigma, che si possa insieme riconoscere il mistero dell’uomo e Chi questo mistero ha accolto e abbracciato come nessun altro, perché è Lui che lo ha creato.