Caro direttore,
in un’indagine del non lontano 2009, all’affermazione secondo la quale “Le coppie omosessuali dovrebbero poter adottare bambini”, quasi tre quarti degli intervistati, il 73,4%, si sono dichiarati contrari, mentre un altro 12,8% si è dichiarato “né d’accordo, né contrario” ed un ulteriore 3,1 ha dichiarato di non sapere cosa dire (G. Rovati, Uscire dalla crisi, Vita e Pensiero, p.406-7). Tradotto in termini comprensibili, ciò vuol dire che l’adozione da parte di coppie omosessuali è profondamente estranea alla percezione della famiglia che ha la larga maggioranza degli italiani.
Dopo due anni di dibattiti televisivi e colpi di scena mediatici (i vari coming out) questo dato sembra essere inabissato, non c’è e se c’è, non c’entra. Al suo posto si è affermata ed ha occupato il primo piano la posizione delle coppie gay (che pare siano legioni) per le quali adottare un bambino è l’obiettivo prioritario, il desiderio più profondo. Il meccanismo della stepchild adoption sembra risolvere il problema dando la possibilità al singolo di poter adottare il figlio naturale del proprio compagno. Della madre, che evidentemente esiste, non si parla e si può ragionevolmente sospettare una paternità di un nuovo tipo dove l’inseminare (o il far inseminare) una donna consenziente che al momento della nascita rinunci al bambino, lasciando al padre la possibilità di poterlo fare adottare dal proprio compagno spalanchi le porte ad un nuovo tipo di coppia con figli.
Si può certamente dialogare con una simile realtà ma comunque, lo si voglia o no, occorre rispondere alla domanda se la dimensione del “femminile” e del “maschile”, entrambe vitali nello sviluppo psichico del bambino, possano essere svolte anche da un uomo nel primo caso o da una donna nel secondo; possano cioè essere realizzate indipendentemente dal genere naturale di chi le esercita. Il problema non è di natura morale e per quanto le religioni abbiano una “mappa” che interpreti e spieghi un tale dilemma, nella società moderna è alle scienze che di fatto ci si rivolge.
Ora non c’è dubbio di quanto cinquant’anni di relativismo sempre meno strisciante e sempre più dominante siano di fatto riuscite, oggi, a mettere in quarantena le leggi di natura. Se oggi, come dicono i miei colleghi di Parigi con un ossimoro da far tremare i muri per la sua inconsistenza: “la natura non è più la stessa di prima”, perché, dopo aver alterato i confini tra vita e morte, non si dovrebbero rivedere quelli tra uomo e donna? Perché il mio amico Carmelo, persona dabbene e di probe virtù, non potrebbe essere, oltre che un buon padre anche un’ottima madre? Padre e madre non sono forse ruoli culturali, quindi relativi e rivedibili, ancorati solo alle tradizioni? Con l’adozione gay il relativismo arriva al suo massimo splendore ed alla sua massima gloria culturale.
Restano quei quasi tre quarti di italiani che continuano a considerare l’adozione da parte di coppie gay come un’enormità, una pericolosa deriva o, nella più cauta delle ipotesi (che qui sottoscrivo) un imperdonabile azzardo: qualora il mio amico Carmelo si sbagliasse e il suo sentirsi donna si rivelasse drammaticamente insufficiente ad assicurare quella sfera femminile alla quale il bambino adottato avrebbe diritto, i danni sarebbero incalcolabili e, soprattutto, sarebbero pagati proprio da quest’ultimo una volta giunto all’età adulta.
Una legge che autorizzerebbe l’adozione da parte di coppie gay investe inevitabilmente il futuro di quanti ancora non ci sono. Assicura a quest’ultimi che “tutto è bene” e lo fa al di fuori di quell’umano principio di precauzione al quale il legislatore ricorre invece in ogni altro ambito — non a caso si parla di “impatto ambientale” e di “sviluppo sostenibile” — arrivando anche a pensare di rallentare o di bloccare le innovazioni qualora conducano a scenari non chiari e quindi rischiosi.
Il nostro sistema democratico obbliga a delle scelte e queste stanno pericolosamente avviandosi verso l’abbandono del principio di precauzione pur di riconoscere un desiderio di paternità fuori da qualsiasi limite naturale. Certamente si può aprire un dibattito, ma la democrazia implica scelte e decisioni sulle quali ci si conta. La verità della nostra vita sociale è almeno a due dimensioni. La prima è quella dei rapporti umani, quella nella quale si realizzano gli incontri concreti che cambiano la vita. Ma accanto a questa esiste un secondo universo sociale che conosciamo solo per interposta persona: attraverso i media, i salotti televisivi e i manuali scolastici che, a loro volta, leggono la realtà che vedono e cercano di interpretarla.
Si può girare le spalle ad un tale universo e dedicarsi al quotidiano, facendo attenzione agli incontri che contano — e ciò è semplicemente indispensabile — ma non si può evitare di far parte di quel prodotto tipico della modernità che si chiama “opinione pubblica” ed è sugli umori di quest’ultima, filtrata e ricostruita attraverso la cornice mediatica, che l’universo politico calcola le proprie strategie e approva o meno i disegni di legge.
Essere in piazza, prendere posizione pubblica assumendosi le proprie responsabilità è parte indispensabile del “gioco democratico”. Si può benissimo restare a casa, andare al bar, così come si può anche arrivare a non prendere posizione, ma ciò vuol dire semplicemente avallare che l’11% (attivo e rumoroso) pesi più del 74 (passivo e silente).
Tra qualche anno potremo vivere in un’Italia nella quale non ci riconosceremo più. In sé non è un problema: potremo e certamente dovremo dialogare anche con questo mondo che verrà. Peccato che nel frattempo abbiamo tollerato che un nuovo modello di famiglia (abbastanza singolare a dire il vero) sia venuto alla luce; con tutte le sue conseguenze per chi — per la prima volta nella storia — sarà nato a partire dal desiderio di due uomini, e la madre (proprio come la maggioranza degli italiani) se c’è, non c’entra.