Cinque mesi dopo ha scritto un libro dove conferma quelle prime clamorose parole di condanna che aveva lanciato appena dopo l’attentato di Londra al London Bridge e al Borough Market (8 vittime, centinaia di feriti lo scorso 3 giugno 2017 in Regno Unito) compiuto da quel suo giovane figlio, Youssef Zaghba. Ha 68 anni ed è italiana, Valeria Kadija Collina, e in quel giorno di giugno ha perso una parte della sua stessa vita: un figlio problematico che non è riuscito a comprendere fino in fondo e che ha seminato la morte in quella notte orrenda in centro a Londra. «Non riesco a vedere Youssef come un jihadista assassino. La mia mente si sta aggrappando a difese estreme per continuare ad amarlo, per questo non ce la faccio ad elaborare le atrocità che ha commesso»: lo dice oggi, dopo aver scritto un libro dove vengono spiegate sia le drammatiche ore dopo l’attentato che anche quel senso di fallimento per non essere riuscita ad insegnare qualcosa di buono a quel giovane ragazzo. Valeria è una femminista convinta e negli anni Settanta è una ragazza come tante: 30 anni fa conosce Mohamed Zaghba, marocchino e musulmano. Si innamora, si converte all’Islam («per anni ho volontariamente indossato il niqab», spiega nell’intervista rilasciata oggi a Repubblica) e si trasferisce a Fez. Qui arrivano due figli, Kaouthar e Youssef, proprio quest’ultimo fu uno degli attentatori entrati in azione a Londra, il primo jihadista kamikaze della storia che si può dire essere italiano.
LA RADICALIZZAZIONE E L’ATTENTATO AL LONDON BRIDGE
Youssef Zaghba è sfuggito all’educazione della mamma e ha seguito le orme fondamentaliste imparate dal padre ma poi assorbite dalla radicalizzazione avvenuta sul web e attraverso alcune amicizie: era stato fermato all’aeroporto di Bologna mentre cercava di imbarcarsi su un volo per la Turchia, dalla quale avrebbe poi raggiunto la Siria. L’intelligence italiana, dopo averlo fermato e denunciato per terrorismo internazionale – per quanto dall’accusa fosse stato prosciolto – aveva continuato a tenerlo d’occhio e più volte ne aveva segnalato i continui spostamenti alle autorità marocchine e a quelle britanniche, evidentemente invano. I suoi genitori si erano separati e lui aveva fatto ritorno a Bologna assieme a mamma Valeria: il 15 marzo del 2016, giorno in cui Youssef venne fermato all’aeroporto Marconi di Bologna, alla mamma non aveva detto di voler andare in Siria: le aveva raccontato di essere in partenza per Roma. Ai controlli, però, si era agitato particolarmente, era stato fermato e gli furono sequestrati il passaporto e il cellulare. Ed è proprio sul telefonino che gli inquirenti trovarono il filmato di una macabra esecuzione nel deserto, nonché foto di bandiere dell’Isis e altro materiale di propaganda. Poi il buio: il progetto, la radicalizzazione approfondita ed entra a far parte del commando che mette Londra in ginocchio per diverse ore. In una intervista all’Espresso nei giorni successivi all’attentato, mamma Valeria ha affermato di aver sempre fatto attenzione alle amicizie del figlio, ma di come non riuscisse a controllare internet. Youssef le aveva mostrato dei video sulla Siria e Valeria l’aveva messo in guardia sulle cose orribili che accadevano in guerra, ma il futuro kamikaze di Londra ne parlava di un posto dove vivere un Islam puro.
“NON SONO RIUSCITA AD INSEGNARLI LO SPIRITO CRITICO”
«Nel 2015 mi accorsi che Youssef aveva la bandiera dell’ Isis su Facebook e dei video di propaganda nei quali sembrava che nel Califfato tutto funzionasse bene. Credo che sia stato un suo amico del liceo a procurarglieli»: Valeria Kadija Collina di Youssef riesce da un lato a tenere aperta la ferita di un figlio che non c’è più e dall’altro, nonostante il dolore, riesce a denunciare e accusare quel morbo mortale dello jihadismo fondamentalista. A quel figlio ha provato in tutti i modi a farlo desistere da quell’idea malsana, così racconta ancora a Repubblica, ma è stato tutto vano: «Ho provato a spiegargli che l’ Isis era solo una costruzione politica e che le violenze non erano ammesse dalla nostra religione. Per molto tempo ho rifiutato di addossarmi una colpa per ciò che aveva fatto Youssef: l’ Islam ci insegna che ognuno è responsabile delle proprie azioni», spiega la donna prima di affondare il colpo, «Poi però ho capito di aver fatto un errore: non ho insegnato ai miei figli ad avere uno spirito critico. Questa è la mia colpa di madre». L’educazione, lo spirito critico di capire e sostenere una tesi e valutarla, tenendo sempre vivo il rispetto di persone, vita e della propria stessa umanità. Niente da fare, tutto inutile con in più un marito di fatto inesistente, «Non si è mai posto il problema. E Youssef si confidava solo con me». Su di lei tutto il peso di un’educazione che evidentemente non ha attecchito. Poteva fermarlo, poteva fare di più Valeria?
Lei è sincera, «Non ero preoccupata, perché Youssef non era mai stato un tipo aggressivo nonostante la nostra fosse una famiglia in cui purtroppo c’ era violenza da parte di Mohamed», ma l’attentato ha cambiato tutto e tolto via quell’ultima speranza di vederlo cambiato. «Di sicuro le autorità inglesi lo hanno sottovalutato: lui stesso mi raccontava che negli aeroporti passava i controlli senza essere fermato, nonostante la segnalazione della polizia italiana». Dopo queste accuse comunque si è ritrovata da sola: isolata dalla comunità islamica fondamentalista radicata anche in Italia che non ha gradito quella denuncia post-attentato e dalla stessa comunità italiana che continua a definirla la mamma del kamikaze. «Con paura. Quando ci sono fenomeni di radicalizzazione, la comunità dovrebbe trovare la forza di affrontarli insieme collaborando con le autorità. Ma non c’ è fiducia nelle istituzioni, anche per le tante espulsioni decise dal governo italiano. Mi sono ritrovata sola e isolata: sono la madre di un terrorista, ma non sono una terrorista».