BENGALESE PICCHIATO A ROMA/ Tocca alla libertà dei singoli denunciare il male “banale”
Ieri, su un treno per pendolari, la linea Roma-Nettuno, un bengalese di 34 anni è stato rapinato e massacrato di botte. La polizia ha esortato a denunciare. MAURO LEONARDI

Una pessima notizia diventa, grazie alle Polizia, un’occasione di crescita per la società civile.
Ieri, su un treno per pendolari, la linea Roma-Nettuno, un bengalese di 34 anni è stato rapinato e massacrato di botte. Traumi facciali tanto violenti da rendere impossibile la parola alla vittima: non può più parlare. Sul treno ha agito una banda di delinquenti non si sa se spinta dalla volontà di fare un furto o solo da bieco e cieco razzismo. O forse per entrambi i motivi.
In questa ennesima cronaca di violenza si fa strada l’invito della polizia: “Chi sa parli”. Le autorità chiedono alla società civile di mettersi in piedi. Chi ha dato l’allarme è stato un passeggero che ha trovato l’indiano riverso in un lago di sangue. Ma la polizia, nella sua corsa contro il tempo, ha bisogno della gente, ha bisogno di tutti. Perché l’aggressione è avvenuta su un treno, su una linea frequentata da pendolari. Un via vai continuo di gente. Ed è impossibile che nessuno abbia visto o sentito.
La società civile non è una cosa che si studia nei libri. È quella cosa — per intendersi — che ne I magnifici sette (film epocale girato in molte versioni, una delle quali, la più antica, si chiama I sette samurai di Akira Kurosawa) spinge la gente qualsiasi, la gente povera, a lottare contro il male, a tassarsi, a coinvolge i buoni, gli eroi — appunto i “magnifici sette” — perché sa che il destino felice è nelle mani di chi si unisce a lottare per il bene. La società civile è quel collante fondamentale che sta tra l’individuo e lo stato. Quella sostanza di cui pare siamo particolarmente carenti in Italia. Ma che deve assolutamente ripartire e rinascere e vivere se vogliamo sopravvivere come Paese. Dobbiamo imparare a dire che la colpa non è dei giornalisti, della politica, della finanza, ma nostra, di noi: che abbiamo visto e non abbiamo detto e fatto e agito per unirci e stare insieme. Perché se non c’è la società civile — cioè “la società” o la “comunità” o “il bene comune” chiamatela come volete — non ci sono né lo stato né l’individuo, né la patria né la persona. Se c’è un ladro nel condominio bisogna certo chiamare i carabinieri ma bisogna, prima, anche urlare, anche fare massa, anche essere solidali ed essere corpo.
La polizia dice “chi sa parli” e allora ti rendi conto che il male che ha quasi ammazzato un pover’uomo non è solo quello dei delinquenti che lo hanno picchiato, ma si nutre anche dell’indifferenza malata per la quale passo accanto alle persone senza accorgermi di esse.
La vera banalità del male è quella che ti fa dire “andavo di fretta”, “non sono fatti miei”. O anche, terribilmente, “in fin dei conti è solo un immigrato indiano”.
Non so, mentre scrivo, se qualcuno abbia telefonato, abbia detto “io c’ero e ho visto”. Uno, qualcuno dei tanti che hanno visto e hanno sentito e che, se sta zitto, col suo silenzio dà tanti altri pugni — molto peggiori — alla povera vittima. Pugni più vili e più cattivi proprio perché invisibili.
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