IL PAPA E LA GENTE/ Perché Abdel Karim, musulmano, era così contento?

- Giuseppe Frangi

Aveva bisogno Milano di vivere una giornata così. Una giornata in cui ha potuto esprimere la parte più vera di se stessa. Dall'aeroporto allo stadio, una grazia continua. GIUSEPPE FRANGI

papa_francesco_milano_folla_lapresse_2017 Milano, piazza Duomo: l'angelus di Papa Francesco (LaPresse)

Aveva bisogno Milano di vivere una giornata così. Una giornata in cui ha potuto esprimere la parte più vera di se stessa. Lo si è capito da subito, al primo incontro con Papa Francesco, quando un bambino alle case bianche di via Salomone gli ha consegnato una stola che era stata tessuta dalle donne della cooperativa “Il filo di San Vincenzo” che lavorano proprio dentro quelle case di periferia. Francesco ha apprezzato per più motivi: primo, perché gli ha permesso di chiarire sin da subito che lui arrivava a Milano come sacerdote; in secondo luogo perché quella stola era stata tessuta dal lavoro di persone e quindi era simbolo di un popolo che agisce, che nella fatica e a volte anche nelle lacrime, continua a tessere, a costruire vita.

Poco prima Francesco era salito in tre appartamenti di quei palazzoni, abitati da oltre mille persone. Tra le case in cui è entrato c’è stata anche quella dove vivono Abdel Karim, sua moglie Hanane, musulmani, e i loro tre figli. Per capire come sia andato quell’incontro bisogna vedere, cercandole su internet, le interviste raccolte dal giornalista di Tv2000: un concentrato di felicità pura che il giornalista fa quasi fatica ad arginare. Padre, madre e figlia più grande raggianti e commossi raccontano di un incontro che “ha cambiato la loro vita”. Fanno vedere i selfie con il Papa che adesso stamperanno in grande e appenderanno nel salottino di casa. Aveva bisogno Milano di vivere un momento così: per aver consapevolezza di quanta strada la città ha saputo fare, nonostante tutte le difficoltà, per costruire vera integrazione. Storie come quelle di Abdel e della sua famiglia sono storie che spalancano al futuro.

In Duomo il programma prevedeva che Francesco rispondesse a tre domande di rappresentanti dei religiosi della diocesi. La prima gliel’ha rivolta don Gaetano Gioia, che rispetto al testo inviato (e distribuito ai giornalisti) ha aggiunto una sottolineatura molto sofferta: “avvertiamo le sfide della secolarizzazione e l’irrilevanza della fede dentro l’evoluzione della società milanese”. Perché Milano è anche questo, non ce lo si può nascondere. Il Papa da par suo ha fatto anche lui un’aggiunta prendendo spunto da un’immagine fatta da don Gaetano. “Tu sai che l’evangelizzazione non sempre è sinonimo di ‘prendere i pesci’: è andare, prendere il largo, dare testimonianza… e poi il Signore, Lui ‘prende i pesci'”. Una sottolineatura semplice e liberante, che vale per tutti, ma che vale ancor di più per un temperamento come quello milanese, perché la sacrosanta vocazione al fare a volte resta “prigioniera” dell’esito. Invece quel che conta è “andare, prendere il largo” e soprattutto dare testimonianza della fede come esperienza di gioia (e Francesco su questo ha citato “il grande Paolo VI”, vescovo della città prima di essere Papa). 

Poi c’è stata la tappa del carcere, a porte chiuse e senza telecamere. La tappa più lunga del viaggio, ben tre ore con detenuti, personale e volontari. Il carcere “è il cuore ferito” della città, che la città non può ignorare e dimenticare. Non c’era bisogno di aggiungere parole, perché il ribaltamento di gerarchie che il Papa ha messo in atto impostando il programma della sua visita vale come un’indicazione della strada per rendere più umana la città. Lo ha colto bene il cardinal Scola quando, quasi commosso, chiudendo questa grande giornata, ha voluto ricordare la “ferita” dei due detenuti che nei giorni scorsi si erano tolti la vita nel carcere di Monza.

Infine Milano aveva bisogno di specchiarsi nell’immenso popolo che si è ritrovato al Parco di Monza per il momento centrale del viaggio. Non è questione di numeri, ma di ritrovare un proprio volto, in grado di dare profondità e serietà umana all’ottimismo che fortunatamente ha pervaso la vita della città in questi anni recenti. Perché la nuova Milano sia davvero una chance per tutti e non solo per una fortunata élite. 





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