8 marzo di 1600 anni fa (anche se sulla data potrebbe aver influito una certa ideologia femminista, ndr) è la data dell’assassinio di Ipazia di Alessandria, la giovane filosofa egiziana cresciuta nei saperi della cultura ellenica e fondatrice della Biblioteca Alessandrina. Un caso e una disfida teologica che per anni, anzi millenni, ha tracciano la Chiesa accusandola di orrenda persecuzione. Così in effetti avvenne, anche se responsabili furono un gruppo di monaci fondamentalisti cristiani, i parabalani, monaci-barellieri venuti dal deserto di Nitria, di fatto miliziani al servizio di Cirillo, allora potente e bellicoso vescovo della megalopoli d’Egitto. Ebbene, nel 2017 e nel giorno della festa per tutte le donne, a Roma viene deciso di nominare un giardino proprio per la memoria di Ipazia. La sezione A.N.P.I. Trullo-Magliana, in occasione del sedicesimo centenario della morte della scienziata alessandrina, nel dicembre 2014 ha lanciato la campagna di raccolta firme per intitolare a Roma un luogo ad Ipazia con lo scopo di togliere dall’oblio millenario una studiosa di grande fama uccisa barbaramente dal fondamentalismo religioso di monaci cristiani e per ricordare la drammatica distruzione della immensa Biblioteca Alessandrina da lei diretta. Oggi viene dedicato un giardino pubblico in via Giorgio Morandi a Roma, occasione per tornare a parlare di Ipazia l’intellettuale, simbolo di femminismo nel corso dei secoli, non proprio a torto. Come ha raccontato Silvia Ronchey, bizantinista, docente universitaria e scrittrice, con un lungo saggio dal titolo “Ipazia, la vera storia”, anticipato con una presentazione su Repubblica, «Nella primavera di sedici secoli fa, ad Alessandria d’Egitto, una donna fu assassinata. Fu aggredita per strada, spogliata nuda, trascinata nella chiesa «che prendeva il nome dal cesare imperatore», il Cesareo, come riferisce una delle fonti contemporanee ai fatti, lo storico ecclesiastico costantinopolitano Socrate Scolastico».
Dilaniata con cocci aguzzi. Mentre ancora respirava le furono cavati gli occhi. Poi i resti del suo corpo smembrato vennero dati alle fiamme: non certo una donna “fortunata” sfruttata e inviata forse per la sua grande intelligenza e per la sua influenza negli ambienti della Alessandria fiorente di quei secoli. L’orrore della persecuzione e l’ambiguità di una parte di Chiesa lontanissima da Roma, con teorie e profonde devianze dalla dottrina cattolica: «Nell’Alessandria del V secolo, Ipazia apparteneva all’aristocrazia intellettuale della scuola di Plotino e dalla tradizione familiare aveva ereditato la successione ( diadoché) del suo insegnamento. Una cattedra pubblica, in cui insegnava «a chiunque volesse ascoltarla il pensiero di Platone e di Aristotele e di altri filosofi», come narrano le fonti antiche. In questo senso era anche una scienziata: la sapienza impartita nelle scuole platoniche includeva la scienza dei numeri e lo studio degli astri. Era dunque anche una matematica e un’astronoma, ma nel senso antico e prescientifico», riporta ancora la Ronchey. Il rogo di Ipazia è stato da alcuni considerato il primo esempio di caccia alle streghe dell’inquisizione cristiana: fu proprio questo proselitismo armato di Cirillo (che contraddiceva in pieno la pur astratta idea di tolleranza propugnata cento anni prima dall’editto di Costantino del 313), ad essere purtroppo con molta lentezza nel tempo, ostracizzato e combattuto dalla dottrina della Chiesa per fortuna evoluta nel tempo. «Cirillo, rivendicando l’accesso della chiesa alla conduzione della politica, aspirava a un vero e proprio potere temporale, più vicino al promiscuo modello del papato romano che alla rigorosa separazione dei poteri sancita dal cesaropapismo bizantino», conclude la studiosa appassionata di Ipazia d’Alessandria.