Andare a frugare dentro una cassa da morto. Scoprire con morbosità i dettagli dell’agonia, della paura, dell’orrore. La morte sepolta viva, la fine di un topo, le lunghe ore (conteggiate con attenzione dal cornista: 40 ore e 47 minuti) nel buio, nella solitudine, con la consapevolezza minuto dopo minuto che da quel buco non uscirai più mentre il tuo fidanzato lì vicino è già morto, ma tu non lo sai. Tutti i media oggi riportano la cronaca in diretta delle ultime due giornate sotto terra di Paola Tomassini, una delle vittime della valanga all’hotel Rigopiano. Si pensava che a parte i pochi sopravvissuti, gli altri fossero morti sul colpo. Così almeno si sperava, almeno non avranno sofferto si diceva. Invece no. Si scopre adesso che qualcuno come Paola ha aspettato inutilmente quasi due giorni di essere salvato. Come sempre, il giornalismo si impadronisce degli atti di una procura, in questo caso quella di Pescara che indaga sulla tragedia, e rende tutto pubblico. Come quando c’è una indagine in corso, come quando si sta per arrestare un politico, un imprenditore, cose che dovrebbero restare in mano a chi indaga e che invece puntualmente arrivano su tutti i media. Si sa che è così, di gole profonde è pieno il mondo del giornalismo e delle autorità giudiziarie. Ma valeva al pena pubblicare lo strazio di questa povera donna? Pure il cuoricino spedito come ultimo messaggio sulla chat Whatsapp di famiglia. Paola si trovava in vacanza con il fidanzato all’hotel maledetto, anche lui è morto nella tragedia ma di lui si dice solo questo. Lei invece si dice che è stata trovata morta con il telefonino in mano, da dove aveva disperatamente chiamato i soccorsi e poi inviato messaggi ai familiari (“Vi amo tutti salutami mamma”) capendo che lì sotto non c’era campo e nessuno li avrebbe letti. Fino a quando le sue spoglie senza vita sono state portate finalmente fuori dall’inferno. Il cronista intinge la tastiera nel sangue: 13 messaggi e 15 telefonate. Spegne e riaccende il telefono per risparmiare la batteria, scrive, l’ultima volta alle 7 e 37 del 20 gennaio. In realtà i messaggini pubblicati sono un paio, questi, ma l’intenzione è sottintesa, fare un diario della morte in diretta. L’hanno trovata la sera del 23 gennaio nel bar dell’hotel, non si sa quando è morta. Aveva 46 anni, lavorava in un autogrill dell’A14. Forse l’unico messaggio che vale la pena riportare è quello iniziale, quando ancora la valanga non c’è stata e che fa capire le responsabilità di chi doveva prendersi cura dei clienti dell’albergo: “Non sappiamo dove andare, siamo bloccati. Non si sa se arriva lo spazzaneve, dicono che è difficile anche per il mezzo”. Poi la morte bianca, che seppellisce tutto. Finora sul registro degli indagati ci sono sei persone, tra cui il sindaco di Farindola, il presidente della provincia di Pescara e il direttore dell’hotel. Le accuse, al momento di omicidio colposo plurimo e lesioni potrebbero aumentare. C’è chi dice che bisogna raccontare tutto e non nascondere la realtà anche se è dolorosa. Forse è così. Anche all’hotel Rigopiano. Potrebbe essere il titolo per una canzone, un libro o un film. Qualcuno ci penserà sicuramente.