Il dibattito sulle cosiddette fake news, in grado secondo alcuni addirittura di modificare l’andamento di una campagna elettorale, tocca anche la Chiesa, che da tempo si è lanciata nel mondo dei social network coniando anche la cosiddetta cyber teologia. Nella puntata del 31 maggio della trasmissione Roma: la Chiesa nella Città di radio Vaticana si è affrontato proprio questo tema, alla luce della Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, con la presenza di alcuni esperti. Brian Crable, docente alla Villanova University di Philadelphia, ateneo agostiniano, don Walter Insero, responsabile dell’Ufficio per le Comunicazioni Sociali della diocesi di Roma; Angelo Zema, responsabile del settimanale diocesano “Roma-Sette” e la giornalista Federica Angeli, cronista di “La Repubblica” che vive sotto scorta a causa delle minacce ricevute per le sue inchieste sulla criminalità organizzata.
Nelle varie dichiarazioni, si sente come uno dei principali problemi almeno per chi è nato e vissuto gran parte della vita prima della rivoluzione digitale, è non comprendere che è stato reso naturale un modo di pensare che non è naturale. Gli intervistati si trovano d’accordo su questa definizione e viene raccontato quanto disse una studentessa la prima volta che si trovò in mano un iPhone: “da adesso in poi non posso più meravigliarmi di nulla, né di un libro o un attore o un particolare film o non devo più chiedermi chi sia l’uno o l’altro perché attraverso la tecnologia ho subito le risposte”. Purtroppo, dicono, “il significato dei libri e della cultura scritta è profondamente cambiato proprio dalla comunicazione digitale. In tale contesto la comunicazione scritta, la cultura scritta, i libri, non sono più così vitali e testi come lo stesso Vangelo hanno visto modificarsi la loro funzione ed il loro significato”.
Si pone il problema di come la Chiesa comunichi con i nuovi media. Viene sottolineato come il problema non sia quello di allinearsi con tutti gli altri: “non si tratta di accettare semplicemente la realtà come si presenta e dunque non si tratta di imparare ad usare Facebook o le piattaforme dei social da parte della Chiesa. Si può certamente fare però forse sarebbe più utile chiedersi come ristrutturare il modo in cui queste aziende vedono e comprendono il loro ruolo all’interno di un contesto globale. Non si tratta di esercitare pressioni o implementare tecnologie verso popolazioni o nazioni povere. La Chiesa potrebbe invece, a mio avviso, sensibilizzare queste aziende a lavorare con le comunità o nazioni più povere per fare in modo che le tecnologie non siano semplicemente a servizio delle grandi sigle aziendali o al servizio degli interessi individuali, in una visione più ampia di beneficio delle comunità umane”.