In una intervista sul Corriere della Sera parla Fiammetta Borsellino, una delle tre figlie del giudice ucciso esattamente 25 anni fa nella strage di via d’Amelio a Palermo: la mafia, ma anche la Procura e lo Stato, nessuno è esente da colpe e responsabilità secondo la figlia più “silenziosa” in questi anni di dolore e vita sconvolti da quell’attentato indegno contro il giudice antiMafia. Per il 25esimo anniversario della Strage di Capaci, in tv proprio Fiammetta Borsellino ebbe modo di raccontare tutto il suo dolore, sobrio e non urlato, tuonando contro «25 anni di schifezze e menzogne, specie nelle indagini sulla sua morte svolte dalla Procura di Caltanissetta». Non usa mezzi termini la figlia 44enne di Paolo Borsellino, presente anche lei nella Audizione Antimafia tenutasi oggi a Palermo: «i 4 processi di Caltanissetta, un balordo della Guadagna come pentito fasullo e una Procura massonica guidata all’epoca da Gianni Tinebra che è morto». In quella stessa procura la figlia di Paolo Borsellino sottolinea come c’erano figure di magistrati ben più importanti come Annamaria Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo, eppure fu scelto altro: «Mio padre fu lasciato solo in vita e dopo. Dovrebbe essere l’intero Paese a sentire il bisogno di una restituzione della verità. Ma sembra un Paese che preferisce nascondere verità inconfessabili».
FIAMMETTA BORSELLINO: L’ATTACCO ALLA PROCURA DI CALTANISSETTA
“I SUOI COLLEGHI NON CI FREQUENTANO”
Fiammata Borsellino non nasconde, come ha fatto oggi sia sul Corriere della Sera che davanti ai cronisti a Palermo, come ad esempio la figura di Nino Di Matteo (il giudice che più volte ha cercato di dimostrare una trattativa tra Stato e Mafia durante l’epoca delle stragi) poteva essere quella giusta per indagare sull’attentato di Via D’Amelio: «So che dal 1994 c’è stato pure lui, insieme a quell’efficientissimo team di magistrati. Io non so se era alle prime armi. E comunque mio padre non si meritava giudici alle prime armi, che sia chiaro». Fiammata attacca a muso duro contro quei magistrati che all’epoca delle stragi non vollero parlare con suo padre, e che dopo la sua morte non svolsero, a suo parere, le indagini accurate: «Dopo via D’Amelio, riconsegnata dal questore La Barbera la borsa di mio padre pur senza l’agenda rossa, non hanno nemmeno disposto l’esame del Dna. Non furono adottate le più elementari procedure sulla scena del crimine. Il dovere di chi investigava era di non alterare i luoghi del delitto. Ma su via D’Amelio passò la mandria dei bufali». La figlia del giudice ucciso spiega anche l’amara constatazione che nessuno dei colleghi del padre all’epoca nelle indagini anti-mafia si è mai fatto vivo con la sua famiglia; «Nessuno si fa vivo con noi. Non ci frequenta più nessuno. Né un magistrato. Né un poliziotto. Si sono dileguati tutti. Le persone oggi a noi vicine le abbiamo incontrate dopo il ’92». In un passaggio molto delicato e importante dell’intervista, Fiammetta Borsellino intese anche dare una sua versione specifica su chi possa aver “manovrato” dietro all’assassinio del padre, della scorta, come del resto dell’amico Giovanni Falcone: «A mio padre stavano a cuore i legami tra mafia, appalti e potere economico. Questa delega gli fu negata dal suo capo, Piero Giammanco, che decise di assegnargliela con una strana telefonata alle 7 del mattino di quel 19 luglio. Ma pm e investigatori non hanno mai assunto come testimone Giammanco, colui che ha omesso di informare mio padre sull’arrivo del tritolo a Palermo…».