Sequestro preventivo disposto nei confronti dei beni del regista Pupi Avati e di suo fratello Antonio, produttore cinematografico. La Cassazione ha confermato il provvedimento relativo all’evasione fiscale dell’Iva relativa agli anni 2012, 2014 e 2015 per complessivi 1 milione e 324mila euro. Come riportato da La Repubblica, si tratta di un reato contestato dalla Procura di Roma ai due fratelli emiliani “nelle loro vesti di presidente del consiglio di amministrazione e consigliere delegato della Duea film spa”. Con la sentenza 15022 della Terza sezione penale, udienza del sette novembre scorso, la Suprema Corte ha negato che “la procedura di rateizzazione di cui la società amministrata” dagli Avati “si era avvalsa, relativamente all’anno 2012, e l’opposizione dagli stessi proposta nei confronti della cartella esattoriale relativa all’anno 2015, potessero escludere la sussistenza dei reati contestati e la confiscabilità del relativo profitto, in relazione alla quale era stata disposta la misura cautelare”.
PUPI AVATI, CASSAZIONE CONFERMA MAXI-SEQUESTRO
Non sono dunque buone notizie quelle che arrivano dalla Cassazione per gli Avati. Secondo gli ermellini, i magistrati romani hanno correttamente ravvisato la “irrilevanza”, rispetto al quadro indiziario emergente dalle dichiarazioni dei redditi e dalla comunicazione di reato della Agenzia delle Entrate, “delle richieste di rateizzazione e delle opposizioni presentate” dai registi che hanno sostenuto la loro buona fede e la mancanza di dolo “senza altro aggiungere circa l’insussistenza del reato o l’ammontare del profitto”. Con questo verdetto, come ricostruito da La Repubblica, la Cassazione ha dichiarato “inammissibile” il ricorso contro l’ordinanza emessa dal Tribunale di Roma il 18 giugno 2018, e ha anche condannato gli Avati a pagare 2.000 euro a testa alla Cassa delle Ammende.