«Sulla sabbia costruisce chi costruisce solo sulle cose visibili e tangibili, sul successo, sulla carriera, sui soldi. Apparentemente queste sono le vere realtà. Ma tutto questo un giorno passerà. Lo vediamo adesso nel crollo delle grandi banche: questi soldi scompaiono, sono niente». Erano parole non scritte nel discorso; eppure Benedetto XVI, introducendo i lavori del Sinodo dei Vescovi, ha voluto inserire, improvvisando, questo passaggio sulla stringente attualità della crisi finanziaria, che proprio lunedì, mentre il Papa parlava, stava vivendo uno dei giorni più bui. Un riferimento brevissimo, quasi «fulmineo», ma che è bastato, secondo Antonio Socci, per esprime «un giudizio culturale dirompente».
Socci, qual è la portata culturale di queste brevi parole che il Papa ha voluto dedicare al tema dell’attuale crisi finanziaria?
Il giudizio espresso dal Papa colpisce innanzitutto per la fulmineità: in poche e quasi scarne parole ha espresso un concetto che per semplicità di sguardo si impone al buon senso comune, ma al tempo stesso ne rovescia i criteri. Si tratta cioè di uno sguardo sulla realtà che è in qualche modo rivelativo, tipico della tradizione cristiana. Ciò che il Santo Padre ha fatto comprendere è che, sia nella prosperità che nelle circostanze nefaste, tutto passa, e l’unica cosa che resta è il rapporto con Cristo. Questo fa impressione, perché anche chi non è cristiano percepisce l’effimero della vita, il lato per così dire “leopardiano” dell’esistenza. È quindi un giudizio che magari può irritare o far polemizzare, ma va a cogliere una cosa che tutti possono constatare.
In cosa allora questo giudizio si differenzia dal normale “senso comune”?
La cosa positiva è il fatto che quello del Papa non è il grido disperato del nichilista, per cui tutto passa e quindi non vale la pena vivere; tutto passa, dice Benedetto XVI, ma una cosa resta, e quello che resta è la roccia, è Cristo. Questo libera dalla schiavitù delle circostanze, della storia e della cronaca, che sbattono le persone qua e là, come foglie al vento. È l’origine di una grande liberazione, perché indica qual è l’ancora grazie alla quale l’io può trovare la propria consistenza. Nel piccolo di una breve affermazione, emerge dunque un giudizio culturale dirompente. Nessuno può indicare una sola cosa al mondo che resta; ma questa rimane una constatazione con cui solitamente non si fanno i conti, se non in termini nichilisti, come invito al carpe diem.
Benedetto XVI non è il primo che rileva la profonda spaccatura culturale che questa crisi finanziaria sta aprendo. Qualche giorno fa, sul Corriere della Sera, André Glucksmann ipotizzava addirittura la fine del post-moderno, con la sua ideologia secondo cui «una cosa diventa vera per il solo fatto che la diciamo»: cosa ne pensa di questo giudizio?
Direi che è troppo bello per essere vero. Non credo che questa crisi possa portare alla fine di questa ideologia. Certo, sarebbe bello se si arrivasse al superamento di una concezione della vita come pura virtualità. Ma il vero problema è che questa virtualità in cui noi tutti viviamo, prima che nell’economia – che pure ne è la struttura portante – si manifesta soprattutto nel circo mediatico: televisioni, internet, giornali. E questo mondo non è in crisi, e continuerà a dominare le nostre esistenze. Tutti viviamo in questo surrealismo di massa.
“Surrealismo di massa” è una strana espressione: che cosa significa?
Franco Fortini, in una bellissima introduzione a un libro sui poeti surrealisti francesi, diceva che la situazione in cui vivono soprattutto i giovani è proprio questo surrealismo di massa. Quello che negli anni Venti-Trenta era l’esperienza di alcune élites – si pensi ad esempio alla dimensione delle droghe – è diventata una situazione di massa. È la peste del nostro tempo, e gli effetti di questo li vediamo noi stessi nella fatica che facciamo nel ricapitolare i termini esatti della nostra esperienza. Parlando con qualcuno, soprattutto con i giovani (ma anche con gli adulti), basta chiedere un’opinione su una cosa qualsiasi: rispondendo esprimono uno sdoppiamento forte tra quello che pensano e quella che è la loro esperienza. Mentre la loro esperienza dice una cosa, la loro testa ne dice un’altra, proprio perché la testa è imbottita di questo mondo virtuale.
Se è la caratteristica fondamentale del mondo in cui tutti viviamo, significa che questa condizione riguarda anche i cristiani.
Questa è la mentalità dominante, è l’aria in cui tutti noi viviamo, anche i cristiani. Il cardinale Ratzinger, in un libro su Origene, disse che le “potenze dell’aria” di una volta, cioè le divinità pagane, ora non sono altro che l’opinione pubblica. I nostri figli ci nascono, e noi pure ci siamo dentro completamente. Questo effettivamente rende difficile anche vivere l’esperienza cristiana e fare un cammino. Poi ci sono momenti in cui la realtà butta in faccia tutto, e si torna a toccare terra coi piedi e a riaprire gli occhi; poi però immediatamente si ritorna alla tentazione di costruire un’identità fittizia o di fuggire in altri mondi. È un meccanismo molto complesso e difficilmente scardinabile. E questo accade anche perché l’uomo ha bisogno di fuggire: l’uomo riconosce l’esperienza vera, la realtà vera soltanto quando questa si presenta con un significato, con un ordine e con una sua bellezza. Altrimenti l’uomo di per sé ha come un automatismo che lo porta a fuggire, perché ha paura della morte e dell’effimero della vita, e non può dire in maniera indolore, come se nulla fosse, che tutto passa e tutto è niente.
Un altro intervento significativo sul tema delle cause culturali della crisi finanziaria è stato un recente editoriale del direttore di Repubblica Ezio Mauro, in cui l’autore introduceva un’immagine significativa: il broker per strada con lo scatolone in mano «esce dall’indistinto virtuale del paesaggio elettronico per tornare ad essere una figura sociale». Non si salta però il passaggio che quel broker era ed è, prima che figura sociale, figura umana, persona?
Il punto è che siamo sempre alla ricerca di identità, di categorie e di schemi dentro cui collocare i fatti che accadono. Se si guarda all’accadere in sé del fatto, se ne coglie la drammaticità, e questo spaventa. Un conto è fare l’analisi sociologica, un conto è incontrare la persona per strada che ti chiede di aiutarla. Rispetto all’immagine del broker, mi viene in mente che il medesimo giudizio del Papa io l’ho sentito dire una volta da don Giussani, in una circostanza esattamente opposta. Ed è quella che illumina e fa capire ancora di più la profonda verità delle parole di Benedetto XVI. Giussani parlava con persone a lui vicine, in un momento di forte entusiasmo al termine di un Meeting di Rimini andato particolarmente bene. Nel mezzo dell’entusiasmo lui se ne uscì con una frase impressionante e vertiginosa: «tutto passa, l’unica cosa che resta è il tuo faccia a faccia con Cristo». E questo è anche il giudizio finale su tutta la nostra esistenza. Ma la cosa veramente impressionante è che egli lo disse in circostanze opposte a quelle attuali: quando tutto crolla questo è più evidente, ma il punto è saperlo affermare quando tutto va a gonfie vele. Ed è questo che permette di capire l’immenso valore di questo giudizio.