Il titolo mi ha attratto subito: «Le nuove tribù del conformismo». Così mi sono buttato nella lettura del lungo articolo di Gillo Dorlfes sul Corriere di giovedì scorso. Devo confessare di non aver capito tanto bene cosa sia conformismo e cosa autenticità, quando il conformismo è accettabile e quando no e, soprattutto, qual è l’antidoto a questo male. Scrive Dorfles: «Quando un determinato habitus mentale finisce per essere accettato dalla maggioranza senza alcun accenno critico o di autocritica finisce per essere conformista». Sembrerebbe, dunque, che per non essere conformisti occorra esercitare la propria capacità critica. Ma su cosa si fonda questa capacità? Non è che la mia stessa criticità sia soggiogata dalle successive ondate del conformismo o, come aveva già intuito Pasolini, della omologazione? Dorfles riconosce che c’è un problema «educativo», ma cosa significhi esattamente non lo dice. Riflettendo su questi argomenti mi è tornata alla memoria una frase di san Paolo che, in una sua lettera dava ai cristiani di Roma un consiglio perentorio: «Non conformatevi!». Ho provato a immaginarmi cosa hanno potuto pensare quei pochi fedeli della capitale dell’impero nel leggere queste parole. Certamente l’invito dell’apostolo non era un suggerimento ad avere una loro propria teoria che li differenziasse dalla marea di scuole e indirizzi filosofici e religiosi che fiorivano a Roma. Avere un pensiero religioso o filosofico strano ed esotico sarebbe stato perfettamente conforme al clima di allora: non c’era divinità per quanto misteriosa che non trovasse il suo posto nel pantheon romano e non c’era filosofo per quanto bislacco che non ricevesse ascolto e attraesse qualche seguace. Non essere conformisti non significava poi di certo abbandonarsi a comportamenti stravaganti; nessuno avrebbe mai saputo arrivare ai livelli di bizzarria di un imperatore che nomina senatore il suo cavallo. «Non conformatevi» significava piuttosto riconoscere la vuotezza di tutti i pensieri, le forme religiose, i comportamenti che la città accettava ed esaltava, magari proprio per un’ansiosa ricerca di autenticità. E poi scoprire, riconoscere che la propria autenticità, ciò per cui io sono io e non vengo appiattito da nessun conformismo, è qualcosa che sta prima di idee, pratiche, comportamenti; è l’unicità della mia persona come rapporto – unico appunto – con Dio. Ma non uno dei tanti dei del pantheon romano, ma un Dio che abbia instaurato un rapporto personale con me, garantendo così la mia autenticità. Un rapporto non intimo o riservato ai momenti rituali, ma un rapporto personale, reso possibile dal fatto che quel Dio è diventato uomo e degli uomini l’hanno visto camminare per strada, mangiare, fare miracoli, morire e risorgere. Solo chi è definito dal rapporto con Dio non sente il bisogno di adeguarsi a forme e schemi comunque passeggeri. E siccome il conformismo (anche quello dell’anticonformismo) è molto comodo per ogni potere, chi veramente «non si conforma» fa una brutta fine. A Roma culti riti, teorie e atteggiamenti erano tutti accettati. Quel piccolo gruppo di veri non conformisti non poteva esserlo. E il potere iniziò a perseguitarli.