Nelle circostanze in cui la Chiesa è chiamata ad esprimere un giudizio sull’autorità civile e a prendere posizione su proposte politiche, come può essere il caso di elezioni politiche o di un referendum, i criteri ai quali si ispira e che privilegia sono due: il rispetto della propria libertà di proclamare la fede cattolica e la certezza che l’operare della politica sia rivolto al conseguimento del bene comune.
Per comprendere le ragioni di questa posizione tradizionale della Chiesa cattolica occorre qualche precisazione. Il ricorso all’espressione «libertas Ecclesiae», che sintetizza bene la posizione descritta sopra, è un richiamo alla riforma dei costumi ecclesiastici realizzata da Papa Gregorio VII, asceso al pontificato nel 1073. In realtà, la riforma dei costumi perseguita con fermezza dal pontefice mirava soprattutto a restituire alla Chiesa la sua spiritualità, e «libertas Ecclesiae» fu il principio in nome del quale i riformatori invocavano la cessazione della tutela e delle ingerenze del potere laico.
Libertà ed esigenza di verità
E’ un segno, non buono, dei nostri tempi che si debba ribadire la libertà della Chiesa di essere ciò per cui è nata: la risposta alla domanda di definitività e di salvezza che, ad onta di quanto si insinua nelle coscienze con i mezzi più svariati, rimane una meta raggiungibile dall’uomo grazie alla Fede. Tuttavia, la libertà della Chiesa e, in generale, la libertà di culto, appartiene all’uomo come diritto naturale poiché essa è necessaria per soddisfare il senso religioso che gli è connaturato, come emerge da molte pagine di Autori dell’età classica definiti “cristiani anonimi” cioè ignari assertori di contenuti e verità cristiane, a testimoniare che il cristianesimo non è una ‘sovrastruttura’ ma la risposta alle esigenze più profonde, e naturali, dell’uomo. Cicerone, ad esempio, individua nella ratio, cioè la ragione, il mezzo consegnato dalla divinità agli uomini per avvicinarli a sé, e quindi alla verità (Sulle leggi, libro I); Platone considera la ricerca della Verità la più degna dell’uomo, ma aggiunge che la zattera gettata dagli dei – cioè la rivelazione divina – in suo soccorso la rendono più facile (Fedone o dell’immortalità dell’anima). S. Paolo, rivolgendosi agli Ateniesi dell’Areopago e ricordando con ammirazione il secolare cammino di avvicinamento alla Verità compiuto da filosofi e pensatori del mondo greco, annunzia di aver conosciuto quello che fino ad allora era rimasto un “dio ignoto” e per confermare la bontà delle loro intuizioni cita ad esempio i versi del poeta Arato (Atti 17).
Questa esigenza di verità, che sollecita ed alimenta nell’uomo l’esigenza di libertà, rende evidente che la libertà, e quindi anche (e soprattutto) quella di culto, «precede qualsiasi giurisdizione statale» e nessun uomo può esserne privato. Presso i Greci, la libertà umana può essere conculcata solo dal fato, che talvolta supera anche la volontà degli dei, ma le leggi scritte e le leggi non scritte – quelle indelebili perché scritte solo nel cuore umano, come ricordano Sofocle nell’Antigone e Pericle (in Tucidide, II 37) – considerano la libertà come un diritto inalienabile (naturalmente in linea di principio, poiché la libertà di cui si parla riguarda soltanto coloro che sono nati liberi e godono la pienezza dei diritti). A Roma, la vita associata della civitas era considerata la massima espressione di libertà, e non c’era nulla che avvicinasse tanto gli uomini agli dei quanto la fondazione o la difesa della civitas (Cicerone, Sullo stato, libro I). Benedetto XVI afferma che riconoscere che nel cuore di ogni uomo sono impressi «valori che si fondano sull’essenza dell’uomo e che sono inviolabili» rinvia al Creatore, come il fatto che esistano «valori che non sono modificabili da nessuno è la vera e propria garanzia della nostra libertà e della grandezza umana» (Senza radici, p. 67).
Un’autorevole ed esplicita conferma, se ce ne fosse bisogno, di quanto si è detto proviene dalla Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America [1776]: «Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti: Che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che tra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della felicità.»
Religione di stato e libertà di culto
La libertà è per sua natura indivisibile: essere liberi vuol dire prima di tutto poter esprimere e realizzare la propria umanità, e non si può soffocare una parte della propria umanità senza perderla interamente. Del resto, la libertà è la somma di tante libertà individuali che coesistono. In proposito, ancora Cicerone, che costituisce il punto più alto della riflessione sullo stato romano, aggiunge che la libertà abita soltanto dove il governo della città è lasciato al popolo, che non è un’accozzaglia di uomini che si sono incontrati per caso ma un insieme di persone che si sono riunite liberamente e che condividono due elementi essenziali della loro alleanza (societas): il diritto (consensus iuris) e il perseguimento del bene comune (utilitatis communio).
Nel mondo antico, soprattutto presso greci e romani, che conosciamo meglio, tutti i momenti della vita politica erano condivisi con gli dei, i quali erano pienamente solidali con gli uomini: infatti, a loro si attribuiva la presenza costante nelle città (le civitates) che li eleggevano a loro protettori, e ogni attività civile, politica, giudiziaria era preceduta dalla richiesta del loro consenso. Quale peso avesse tutto ciò sulla vita associata ci è noto attraverso le testimonianze delle opere più antiche della letteratura occidentale: Esiodo ed Erodoto narrano che ci fu un tempo in cui gli dei abitavano la terra insieme con gli uomini, e Virgilio ne attende il ritorno, quasi in una nuova creazione che il tempo di Augusto lasciava presagire, a ulteriore riprova che il tempo della pace si identificava con la presenza divina sulla terra.
Questo stretto legame fra uomini e dei, regolato da norme rigidissime, al punto che si ricorreva a termini lessicali differenziati per indicare concetti analoghi in ambito sacro e in ambito profano, impedì che si arrivasse a garantire autonomia al culto: impossibile concepire un “libero culto in un libero stato”. A Roma, in età repubblicana, al pontefice massimo, suprema carica religiosa di elezione popolare, era riconosciuta sovranità indiscussa sull’esercizio del culto ed esisteva un collegio sacerdotale addetto alla tutela dei culti tradizionali ed eventualmente all’ammissione di culti stranieri. Tutto ciò conferma l’importanza che si attribuiva al vincolo fra gli dei e le istituzioni romane. In età imperiale l’imperatore assunse progressivamente il primato anche nel culto, associandosi spesso a quello della Città (ad esempio, Roma e Augusto) così da dare l’impressione di un’investitura divina del suo potere.
Tuttavia, l’inizio dell’età imperiale coincise pressappoco con gli inizi del Cristianesimo. La predicazione di Cristo e la sua morte e resurrezione avvennero al tempo di Tiberio, l’immediato successore di Augusto. La diffusione rapida del Cristianesimo, inteso inizialmente come una setta del Giudaismo, pose la questione se esso dovesse essere considerato una religio licita o no, cioè se potesse essere tollerato dall’autorità romana oppure no. Dall’Apologeticum di Tertulliano (libro V) abbiamo notizia di una delibera del Senato degli ultimi anni del regno di Tiberio che avrebbe dichiarato il Cristianesimo superstitio illicita, nonostante Tiberio si fosse dimostrato favorevole all’ammissione della dottrina cristiana fra i culti consentiti. Questo Senato Consulto è con molta probabilità alla base di tutte le persecuzioni successive subite dai cristiani.
Soltanto con l’Editto di Milano, emanato nel 313 da Costantino, i cristiani e “tutti gli altri” potevano professare la religione che preferivano, liberamente, senza ingerenze esterne dello stato (almeno nelle intenzioni): «Ut daremus et christianis et omnibus liberam potestatem sequendi religionem quam quisque voluisset» (ci è sembrato che fosse giusto) dare ai Cristiani e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che ciascuno preferisse (Lattanzio, Sulla morte dei persecutori, 48).
L’Editto di Costantino consente la libertà di culto ai Cristiani e a tutti gli altri ed è perciò un provvedimento di grandissima portata sotto il profilo del diritto e sotto il profilo storico perché, per la prima volta, viene affermata la possibilità per i vari culti di coesistere pacificamente con l’autorità politica e fra loro. Tuttavia esso riceve, ancora una volta, dal potere politico il diritto alla propria esistenza. Soltanto l’affermazione di principio che interverrà sette secoli più tardi potrà dirsi veramente «libertas Ecclesiae» perché verrà affermata l’autonomia della Chiesa, cioè la sua ‘capacità’ di darsi proprie leggi, e prima ancora il diritto proprio ad esistere.
Che il pericolo dell’ingerenza dello stato non fosse stato rimosso lo dimostra il c.d. Editto della Fede, emanato dall’imperatore Teodosio nel 380, nel quale è detto: «Noi vogliamo che tutti i popoli governati dalla clemenza nostra seguano la religione che il santo apostolo Pietro rivelò ai Romani»; contestualmente tutte le altre religioni venivano tacciate di eresia. A questo provvedimento ne seguirono altri, pesantemente restrittivi nei confronti dei culti pagani, con lo scopo di difendere la Chiesa e la dottrina cristiana.