RITRATTI/ Mircea Eliade, l’antropologo che indagò il “senso religioso”
Un grande studioso che si impose nel contesto accademico a lui coevo per il suo approccio originale e al contempo rigoroso nell’indagine antropologica. Abbiamo chiesto al professor NATALE SPINETO, anch’egli storico delle religioni nonché uno dei suoi massimi conoscitori, di descrivere la forza e l’attualità del pensatore romeno

Indagare il mito per indagare l’uomo. In questa dichiarazione di intenti si può riassumere la monumentale opera di uno dei più grandi antropologi e storici delle religioni che il XX secolo annoveri. “Mito e realtà”, pietra miliare per coloro che studiano queste discipline si colloca, come d’altra parte tutte le altre opere di Mircea Eliade, in una dimensione rivoluzionaria nell’approccio scientifico al comportamento religioso umano. Facendo breccia in un periodo e in un contesto accademico che del mito e dell’archetipo hanno dato ogni tipo di interpretazione, riduzionista, biologica, psicologica o sociale Eliade si è imposto per il suo approccio originale e al contempo rigoroso nell’indagine antropologica. Abbiamo chiesto al professor Natale Spineto, anch’egli storico delle religioni nonché uno dei suoi massimi conoscitori, di descrivere la forza e l’attualità del pensatore romeno.
Quali sono le ragioni che a tutt’oggi rendono Mircea Eliade uno dei più grandi e famosi antropologi al mondo?
Eliade ha saputo sottrarre la disciplina che professava, la storia delle religioni, al mondo accademico e diffonderla presso il grande pubblico. Lo ha fatto superando i confini che la separano dalla filosofia e dalla teologia e presentandola come uno strumento per dare una risposta alla sete di senso dell’uomo d’oggi.
Come si relaziona la concezione del mito e dell’archetipo propria dello studioso romeno rispetto al contesto filosofico e psicanalitico a lui contemporaneo o di poco precedente?
Eliade usa il concetto di archetipo, che ai suoi tempi era stato diffuso soprattutto da Jung, senza dargli una connotazione psicologica, ma considerandolo come una struttura che media il rapporto fra l’uomo e il sacro. Nel fare questo riprende tematiche proprie della filosofia fenomenologica, dandone una formulazione nuova. Il mito è per lui un racconto sacro attraverso il quale si rivela all’uomo “il segreto delle origini delle cose”. La conoscenza dei miti del passato è dunque fondamentale, perché ci consente di rivivere le modalità tramite le quali l’umanità di tutte le epoche ha cercato le sue radici nel sacro. Rispetto ad essi lo studioso è chiamato a svolgere un’attività inesausta di interpretazione. Queste tematiche avvicinano Eliade alla filosofia ermeneutica contemporanea, e in particolare alle posizioni del filosofo francese Paul Ricoeur, con il quale ha avuto modo di collaborare quando insegnava all’Università di Chicago.
A suo avviso Eliade ravvisa, come in un certo qual modo alcuni filosofi a lui contemporanei, una sorta di “sopravvivenza” della dimensione mitica nell’agire dell’uomo moderno?
L’attività di Eliade si colloca in un periodo del quale si parlava molto di desacralizzazione e di secolarizzazione, cioè della perdita, nella società contemporanea, della dimensione religiosa. Per lui non è però possibile che tale processo arrivi fino in fondo, perché la sete di un senso costituisce una componente ineliminabile dell’umanità ed essa si esprime necessariamente in maniera religiosa. Occorre dunque cercare, nella civiltà contemporanea, le tracce di un sacro che si è camuffato nel profano, così come, ad esempio, i riti d’iniziazione si sono nascosti nelle trame dei romanzi d’avventura. Eliade ha sempre avuto fiducia nella capacità del sacro di esprimersi in forme nuove, che non eliminano quelle tradizionali, ma le arricchiscono.
Qual è, se c’è, la sostanziale differenza tra dimensione mitica ed esperienza religiosa nel pensiero di Mircea Eliade?
La dimensione mitica è per Eliade una componente dell’esperienza religiosa. Entrambe hanno la loro base nel simbolo. Il simbolo è, nella prospettiva di Eliade, il luogo nel quale si possono mettere in relazione, senza perdere la loro specificità e la loro irriducibile differenza, la realtà assoluta del sacro e l’esperienza umana che, come tutto ciò che è umano, è limitata e necessariamente incompiuta. La religione si fonda dunque sui simboli e il mito è un’espressione narrativa del simbolo, è un modo di declinare il rapporto fra uomo e mondo divino attraverso una storia.
Lei ha recentemente dedicato allo studioso un volume aggiungendo in appendice il carteggio fra questi e Kàroly Kéreny. Quali differenze o affinità intercorrono fra questi due personaggi?
I due studiosi hanno avuto delle relazioni complesse, che non si possono qui ripercorrere nel dettaglio. Eliade e Kerényi hanno condiviso l’esperienza del circolo Eranos di Ascona. Questo era un gruppo di studiosi che si riunivano ogni anni sul Lago Maggiore ed erano accomunati da un’idea della cultura come confronto e scambio fra i risultati dei diversi campi del sapere, la cui integrazione era possibile appunto grazie al simbolo. Lo studio del simbolo come linguaggio condiviso aveva lo scopo di un incremento delle conoscenze che costituisse l’occasione per una maggiore realizzazione dell’uomo. Tra le altre cose, Eliade e Kerényi avevano in comune l’uso del concetto di “archetipo” che, anche se impiegato in maniera differente, nasceva in entrambi da un’esigenza comune: la volontà di trovare strutture della religiosità radicate nell’esperienza esistenziale dell’uomo che non si potessero ridurre ad elementi puramente psicologici.
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