Nel 1959 all’interno della Democrazia Cristiana si forma la corrente dei Dorotei nel convento romano della santa dalla quale presero il nome. Aldo Moro, Mariano Rumor, Antonio Segni, Paolo Emilio Taviani ed Emilio Colombo si riunirono per dar vita alla “congiura” che provocò la caduta dell’allora presidente del Consiglio, ministro degli Esteri e segretario del partito Amintore Fanfani. Questi politici rappresentarono, negli anni a venire, l’essenza della Dc e del centrismo e, per molto tempo, ne costituirono la corrente più potente. Ma non solo. Godettero di pessima fama e cattiva stampa. Ancora oggi, a poche settimane dal cinquantenario della loro nascita, il “potere per il potere” o il “doroteismo” sono rimasti per gran parte del sentire comune termini interscambiabili e gli esponenti di allora ricordati come grigi faccendieri di palazzo. Ma quali furono realmente le motivazioni che unirono questi protagonisti della Prima Repubblica? Ci risponde Sandro Fontana, professore di Storia Contemporanea presso l’Università Statale di Brescia, già vice-segretario della Dc, ministro dell’Università e vice presidente del Parlamento Europeo.
Cosa originò la “congiura” di Santa Dorotea?
Dobbiamo anzitutto capire cosa stava accadendo in quegli anni e qual’era il clima politico. Amintore Fanfani, nel ‘59, era allo stesso tempo segretario della Dc, ministro degli Esteri e presidente del Consiglio. Nessuno all’interno del partito aveva mai accumulato tante cariche. Per molti questo era diventato inaccettabile.
Troppo potere nelle mani di un solo uomo destava preoccupazione?
Ovvio. In un Paese che usciva da una dittatura e dove spesso il popolo reagiva con le viscere piuttosto che con l’uso della razionalità, mantenere alto il livello di mediazione politica era fondamentale. Era necessario dialogare con gli alleati, tenere a bada il Partito comunista filo-sovietico ed avere un occhio di riguardo nei confronti degli alleati d’oltreoceano. Inoltre, Fanfani non era certo aiutato dal suo carattere notoriamente irruente e – a tratti – dispotico. C’erano, tuttavia, ben altri motivi, di carattere politico e ideale.
Ci dica intanto quelli politici
Si trattava una questione strategica. La Dc ai tempi aveva il 42 per cento dei voti e in molti pensavano che raggiungere il 51 non fosse un’impresa folle. Ma per poter continuare a governare e ad aumentare i consensi era necessario mantenere nei confronti degli alleati un certo “tasso di ambiguità”. Questi sapevano ben utilizzare il loro potere residuale: chiedevano in cambio del loro appoggio cariche ben superiori al loro effettivo consenso, sotto la minaccia dell’ingovernabilità. La Dc poteva permettersi di “temporeggiare” solo se gli incarichi ministeriali e parlamentari avessero continuato a riflettere i reali rapporti di forza all’interno del partito. Si trattava, insomma, di lasciar credere agli alleati che, se le promesse non venivano mantenute, era perché nessuno all’interno della Dc aveva la forza sufficiente per farlo. Lo strapotere di Fanfani scombinava questo metodo.
Quali, invece, le ragioni di natura ideale?
Furono quelle determinanti. Il motivo principale per il quale i Dorotei si riunirono fu uno: contrastare l’idea di fondo che Fanfani aveva del partito e della società.
Ossia?
Fanfani era l’erede spirituale e politico di Dossetti. Secondo il quale – come ha più volte scritto il cardinal Biffi che lo conosceva molto bene – contavano unicamente tre fattori: lo Stato, il partito e il singolo.
Dal pensiero di Dossetti era del tutto estraneo il concetto di società, con i suoi raggruppamenti spontanei e le sue libere aggregazioni che, logicamente e spesso storicamente, precedono non solo i partiti, ma lo Stato stesso. In Dossetti non c’è mai stata traccia del principio di sussidiarietà. E così in Fanfani. Si trattava di una grave lacuna che assegnava al partito compiti di derivazione leninista.
Addirittura?
Certo. Scriveva Fanfani che «la forza ideologica ha bisogno della forza organizzativa per difendere e diffondere gli ideali affermati. Ha bisogno della forza elettorale per farli accettare e sostenere. Con la conseguente forza parlamentare li farà adattare e tramutare da ideali in leggi e costumi». Per Fanfani, in pratica, il partito doveva imporre dall’alto, al popolo, la propria visione del mondo.
E per i Dorotei, invece?
Il contrario: per loro si trattava di dar voce ai valori già presenti nella società, interpretarli e tradurli in una dimensione politica. Erano accomunati dall’idea di società che aveva maturato De Gasperi. Per lui lo stato rappresentava l’organizzazione politica della società. Ma non di tutta la società. Al contempo il partito doveva essere un organismo limitato, al quale non spettava il compito di operare in tutti i campi. Altri organismi sociali agivano nello stesso tempo e nello stesso spazio, su livelli diversi. Secondo De Gasperi il partito non doveva sostituirsi o sovrapporsi alla varie società naturali. Cioè – in primis – alla famiglia, alla comunità locale e all’organizzazione professionale.
Come mai furono tanto bistrattati dall’opinione pubblica?
La flessibilità era il loro modus operandi. Far politica significava conciliare le diverse istanze presenti all’interno del partito, tra i partiti e tra i vari organismi sociali. Era l’unica maniera per giungere ad una sintesi tra il particolare e l’universale, per pervenire dai fatti alle leggi. Il loro costante compromesso diede spesso adito a fraintendimenti. La gente e volte non capiva il senso di quello che facevano, e intravedeva unicamente oscure logiche di potere. C’è da dire anche che, con il loro modo di fare, talvolta criptico o equivoco, se la sono un po’ cercata…
Ma indubbiamente la loro elasticità impedì, per anni, il clima di totale contrapposizione politica di adesso. Attualmente, nella politica italiana, manca una certa dose di doroteismo.
(Intervista raccolta da Paolo Nessi)