Tra i numerosi episodi storici richiamati dal film “Katyn” di Wajda, ce n’è uno che al pubblico occidentale può apparire un po’ implicito: si tratta della scena in cui il regista rende una sorta di omaggio all’ufficiale sovietico la cui umanità prevale sulla violenza ideologica, e cerca di salvare la protagonista Anna e sua figlia Weronika: «In quanto moglie di un ufficiale polacco, Lei oggi è una donna morta» – le sussurra, perché – «le mogli degli ufficiali polacchi saranno le prime…». Ciò che i fotogrammi successivi descrivono in forma sintetica è il ricordo della pulizia etnico-culturale avviata dall’URSS nelle regioni polacche, bielorusse e ucraine occupate secondo il patto siglato con la Germania nazista nell’agosto 1939. Pulizia che, come ricorda lo storico Sanford nel suo libro dedicato all’eccidio di Katyn, prevedeva «l’eliminazione completa dell’influenza politica, sociale e culturale polacca e la dispersione della popolazione polacca all’interno dell’URSS dove avrebbe potuto essere controllata in modo efficace».
Si trattava di persone legate alle proprie tradizioni cattoliche e nazionali, con un forte senso di appartenenza alla patria agognata da secoli, e perciò poco inclini a subire il brain-washing ideologico sovietico. Tra il 1940 e l’amnistia dell’agosto ‘41 (quando la Germania da alleata divenne nemica) furono deportate nelle steppe dell’Asia sovietica migliaia di famiglie polacche o miste ucraino/bielorusso-polacche bollate come «controrivoluzionarie e nazionaliste».
Il 10 febbraio ‘40 vi fu la prima deportazione di 140.000 persone, «latifondisti e proprietari terrieri», poi seguì quella del 13 aprile (61.000 persone) che colpì le famiglie degli ufficiali prigionieri e destinati alla fucilazione, quelli descritti nell’elegia cinematografica di Wajda. A fine giugno furono deportate altre 75.000 persone, i «fuggiaschi» ebrei polacchi che scappavano verso est dai territori occupati dai nazisti. Infine tra il maggio-giugno 1941 ci fu la quarta operazione che si spinse fin nei territori della Bucovina e del Baltico e colpì 40.000 persone. In totale gli storici parlano oggi di circa 320.000 deportati. Si ripeteva su scala bolscevica la deportazione subita dai polacchi che avevano partecipato ai moti di liberazione dell’800 contro l’occupazione russa, e che erano stati deportati in Siberia.
Il piano fu proposto dal commissario del popolo agli interni, Lavrentij Berija, e approvato da Stalin il 2 marzo 1940, pochi giorni prima che ordinasse la fucilazione degli ufficiali prigionieri. Le famiglie dovevano essere trasferite in Kazachstan o in Siberia «per un periodo di 10 anni», si prevedeva l’arresto dei «nazionalisti» più pericolosi e la confisca dei beni immobili abbandonati, messi a disposizione degli organi sovietici. Le operazioni si svolgevano in un unico giorno, mentre il viaggio dei deportati durava in media dalle 2 alle 4 settimane. L’80% delle famiglie era composto da donne e bambini, che giunti alla meta si trovavano in un ambiente doppiamente ostile, sia per le dure condizioni climatiche, sia per l’astio antipolacco fomentato dalle autorità sovietiche, anche se nei rapporti dell’NKVD – la polizia politica – si registrarono episodi di solidarietà della popolazione locale, impietosita dalle disperate condizioni dei deportati.
In un documento dell’NKVD si racconta di una certa Barbara Paniuk che nel settembre del ‘40 si presentò alle autorità sovietiche portando con sé i suoi 6 figli di età compresa tra 3 e 10 anni, dicendo: «Prendeteli voi, perché soffrono la fame e io non sono in grado di dargli da mangiare; se non li prendete sarò costretta a buttarmi nel fiume». Uscita con un bambino ancora al seno, di lei non si seppe più nulla.
Si sono conservate anche alcune lettere di bambini inviate a Stalin, nelle quali chiedevano notizie dei loro padri. Nel maggio ‘40 dal villaggio di Rozovka 4 bambini scrissero al «Grande Padre Stalin» perché restituisse loro i padri, rinchiusi a Ostaskov: «Ci hanno trasferiti dalla Bielorussia occidentale senza permetterci di prendere nulla con noi. Ora le nostre condizioni di vita sono pessime, le nostre madri sono malate e non possono lavorare, e soprattutto nessuno si occupa di noi e ci dà lavoro. Perciò noi bambini soffriamo la fame e chiediamo a te, padre Stalin, di non dimenticarti di noi».
Krysia Minucki e il fratello Stanislaw scrissero al Generalissimo dalla regione di Akmolinsk: «Nostro buono e amato padre Stalin! Io sono malata e sono molto triste per il mio paparino che non vedo da 9 mesi. Così ho pensato che solo Lei, il grande Stalin, può farlo ritornare: è ingegnere e durante la guerra è stato chiamato sotto le armi e poi l’hanno catturato. Ora lui si trova a Kozel’sk. Noi siamo stati trasferiti da Pinsk in Kazachstan. Qui non abbiamo parenti, mia madre ormai è debolissima. La supplico di inviarci nostro padre». Il corpo del sottufficiale Minucki fu trovato nelle fosse comuni durante la riesumazione del 1943.