Padre Aleksandr Šmeman (1921-1983) nasce in Estonia, emigra in Francia con la sua famiglia e trascorre a Parigi tutta la sua giovinezza, negli ambienti dell’emigrazione russa. Sacerdote e teologo mantiene in sé le profonde radici spirituali dell’oriente ortodosso, lo sradicamento dell’emigrato e la capacità di adattamento ad ogni nuova situazione. La sua fede si è sviluppata fra queste contraddizioni, facendone continua occasione di arricchimento.
Per gentile concessione del bimestrale La Nuova Europa (www.russiacristiana.org) pubblichiamo uno stralcio di un suo intervento del 1957. È un esempio dell’incisività di una fede vissuta, che diventa cultura, della sua capacità di illuminare la realtà e di restituirle una prospettiva umana.
Nel corso dei secoli è venuto a crearsi un tipo di cristiano rispettabile, soddisfatto; nel corso dei secoli il cristianesimo ha smesso di percepirsi come il fuoco che Cristo è venuto ad accendere sulla terra, un fuoco purificatore, trasformatore e bruciante, per ritenersi invece una realtà scontata, un «pilastro» indispensabile, indiscusso come tutti i molteplici «valori» accumulati dall’umanità nel processo della sua evoluzione storica e divenuti oggetto di studio e insegnamento scolastico. Sì, certo, in tutte le epoche sono esistiti, hanno continuato a rifulgere dei pertugi che lasciavano intravvedere questo fuoco, la sua luce e il suo calore hanno fatto ardere santi, giusti, folli – «di loro il mondo non era degno!» (Eb 11,38). E tuttavia si è imparato ben presto a «utilizzare» anche loro, come intercessori, patroni, protettori, ma non come richiamo e giudizio.
Poi, quando a un tratto questo «mondo cristiano», pieno di disuguaglianza, ipocrisia e autoappagamento ha cominciato a crollare e a franare, i cristiani rispettabili, ormai dimentichi da tempo delle parole di san Paolo secondo cui siamo pellegrini e forestieri «perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura» (Eb 13,14), hanno cominciato per primi a vedere ovunque e dappertutto l’anticristo, a parlare della fine del mondo, a denunziare, maledire e odiare. Dal «ritualismo quotidiano» al panico dell’Apocalisse! Senza rendersi conto che proprio il loro secolare sopore, la loro incapacità di scorgere in tutta la storia del mondo la lotta fra due Regni, la loro abitudine al cristianesimo era la causa della rovina… Non avendo imparato ad amare, si sono rinserrati in una patetica protesta, altrettanto sterile del «passato» irreale che avevano eretto a misura assoluta di tutto…
Questa è una posizione riscontrabile nel mondo ortodosso di oggi. C’è poi un’altra posizione che vi si contrappone, e che, sia pur in altro modo, affonda anch’essa le radici nel medesimo cristianesimo «mondanizzato». È la posizione dei conformisti, di tutti quelli che pensano che il cristianesimo sia «utile» e possa diventarlo ancor di più a condizione che si adegui in qualche modo al «momento corrente». Naturalmente, non si tratta di un «valore primario», ma quando gli si sia trovata una collocazione (all’interno di un programma politico, di un manifesto ideologico, oppure, ancora, nel novero degli immancabili «valori religiosi»), perché non considerare anche i principi cristiani, l’ispirazione cristiana e i fondamenti evangelici? Nell’edificare lo Stato, la società, la cultura del futuro, tutti questi elementi potranno tornare utili e in ogni caso non nuoceranno. Così, da un lato c’è il catastrofismo apocalittico dei fautori del «buon tempo antico», e dall’altro il piatto realismo degli ideologi del mondo futuro, noioso come tutte le «ideologie».
Ma in questo soffocante, noioso dilemma creato dalle due posizioni descritte, vorrei almeno accennare, senza dilungarmi in spiegazioni e dettagli, a un’altra cosa, senza la quale tutti i discorsi sulla religione sono di una falsità insostenibile. Quest’«altra cosa» può essere chiamata con nomi diversi, qui tutte le parole sono approssimative. È la letizia della fede, è il fuoco della Pentecoste, è la luce e la pienezza dell’Eucarestia, è la libertà di quanti conoscono la verità, è un presentimento, un pregustare «quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo… che Dio ha preparato per coloro che lo amano» (1 Cor 2,9).