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Home » Cultura » Letture e Recensioni » LETTURE/ Saprà l’arte donarci “l’unica felicità possibile” di Elsa Morante?

  • Letture e Recensioni
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LETTURE/ Saprà l’arte donarci “l’unica felicità possibile” di Elsa Morante?

«Unica felicità possibile: non essere sé, ma tutti». UBERTO MOTTA racconta la vita e l’opera di Elsa Morante (1912-1985) e la sua ricerca, attraverso l’arte, della salvezza dalla disintegrazione

Uberto Motta
Pubblicato 25 Novembre 2010
elsa_moranteR400

Eccessivo e totalizzante: due aggettivi basterebbero a definire il mondo narrativo di Elsa Morante. Una donna per cui scrivere è la faccenda seria della vita, quale forma di partecipazione assoluta all’energia e ai colori della realtà.

La sua maggiore gloria riposa su quattro titoli nei quali tutta si è donata e trasfusa: Menzogna e sortilegio (1948), L’isola di Arturo (1957), La storia (1974), Aracoeli (1982). Si è parlato di «incessante metamorfosi». Ogni libro, diverso dal precedente, è curato e amato come l’ultimo possibile, esito di una concentrazione ferma e totale. I lettori ne sono, in genere, sedotti o disgustati; mentre i critici per lungo tempo hanno guardato a lei con sufficienza o antipatia. E ancora oggi, un poco, si stenta a riconoscerne per intero la grandezza.


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Al centro della sua vicenda, biografica e letteraria, c’è una lacerazione. La tragedia è doppia e concomitante. Nel 1962 Elsa perde dapprima un carissimo amico, il giovane pittore americano Bill Morrow (che muore improvvisamente, precipitando da un grattacielo); poi perde il marito, Alberto Moravia, che l’abbandona. In una pagina di diario misura su di sé il dramma dell’uomo e ne ricava la forza di riscatto, come tensione insopprimibile alla fraternità: «Due anni da quel 30 aprile. E io continuo a vivere come se fossi viva. In certi momenti io stessa dimentico l’orrore. Una consolazione arriva, come se io ti ritrovassi in altre cose. Ma l’urto si riavverte d’improvviso. […] L’unico rimedio per arrivare alla fine umanamente è non essere io, ma tutti gli altri, tutto il resto. Non separare. Essere tutti gli altri passati presenti futuri vivi e morti. Così posso essere anche te. […] Unica felicità possibile: non essere sé, ma tutti».


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A partire da questo strappo la Morante rinasce diversa. Matura e cresce. Si risveglia in lei una coscienza assopita, e scopre il valore dell’impegno generoso, della testimonianza benefica.
Il 19 febbraio 1965 tiene al Teatro Carignano di Torino la conferenza Pro o contro la bomba atomica. Lo stesso testo viene letto a Roma al Teatro Eliseo, e poi stampato sull’Europa letteraria. L’affermazione di partenza è radicale: «Si direbbe che l’umanità contemporanea prova l’occulta tentazione di disintegrarsi». E la proliferazione minacciosa delle armi esprime la volontà inconsapevole a cui s’oppone la poesia.


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«L’arte è il contrario della disintegrazione. Perché la ragione propria dell’arte, la sua giustificazione, è appunto questa: di impedire la disintegrazione della coscienza umana, nel suo quotidiano, e logorante, e alienante uso col mondo; di restituirle di continuo, nella confusione irreale, e frammentaria, dei rapporti esterni, l’integrità del reale, o in una parola, la realtà. […] La purezza dell’arte non consiste nello scansare quei moti della natura che la legge sociale censura come perversi o immondi; ma nel riaccoglierli spontaneamente alla dimensione reale, dove si riconoscono naturali, e quindi innocenti. La qualità dell’arte è liberatoria, e quindi, nei suoi effetti, sempre rivoluzionaria. Qualsiasi momento dell’esperienza reale e transitoria, diventa, nell’attenzione poetica, un momento religioso». Dietro simili parole, che onorano chi le ha pensate e pronunciate, oggi è lecito scorgere l’eredità più sincera, la lezione più resistente di Elsa Morante.

Arriva così, nel 1974, il romanzo La Storia: prima accolto con clamore (e successo, a prescindere dai pronunciamenti, pro o contra, della critica ufficiale), e poi lasciato cadere nel silenzio. La Morante abbandona lo stile alato, complesso e aristocratico degli esordi, e persegue un ideale nuovo, di "affabulazione democratica". Elsa scrive «come se i personaggi le tenessero la penna in mano» (C. Cases). Spazia fra i dialetti, l’italiano popolare e il linguaggio infantile (dell’innocenza, dell’interiorità e dell’isolamento). Discende dal sublime all’umile, per esprimere solidarietà coi poveri, coi bisognosi. Si spiega, in quest’ottica, la citazione evangelica adottata per epigrafe del romanzo. Hai nascosto queste cose ai dotti e ai savi e le hai rivelate ai piccoli… perché così a te piacque. Fu questa, per Elsa, l’unica (vera) consolazione possibile.


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