Figli come siamo di una cultura che parcellizza i diversi aspetti dell’esperienza umana – sentimento e ragione, particolare e universale, idee e fatti, volontà e libertà – viene naturale ritenere che, poste alcune condizioni, da esse sorga automaticamente la conseguenza che la mente persegue. A questa visione si contrappone il realismo di chi è cosciente delle molteplici interazioni tra i diversi fattori che concorrono a determinare gli esiti delle nostre azioni, di cui il fattore umano è un elemento determinante. Questa considerazione vale sommamente per l’esperienza giuridica la quale, proprio in quanto esperienza, ha in sè una molteplicità di fattori e vive grazie a chi la sente come propria; non a caso essa ha come valore guida la virtù della prudenza, cioè l’arte di valutare le diverse circostanze e di calibrare le conseguenze per poter realizzare nel modo meno imperfetto possibile gli scopi che, creando o applicando il diritto, ci si prefigge.
In quest’ottica, non vi è nulla di più contrario all’esperienza e alla scienza giuridica del legalismo, cui non si può più credere davvero se non come ideologia da sbandierare a proprio uso e consumo; esso, infatti, tende ad appiattire il diritto sulla meccanica applicazione di un dettato normativo nell’illusione che ciò sia in grado di produrre ex se risultati giusti e coerenti. Il legalismo è ancora più paradossale oggi, un oggi che si confronta con un vero e proprio diluvio di norme che ammorbano la nostra struttura economica e, soprattutto, l’azione amministrativa, imbrigliata da “condizioni normative” che sembrano fatte apposta per indurre all’elusione. E che, si badi bene, non cessa: nonostante le molteplici leggi di semplificazione, siamo al top nel produrre un numero di leggi più grande di quanto fanno gli altri paesi industrializzati, come ricorda Luciano Violante nel suo recente scritto dal titolo (assai evocativo): Magistrati ( Einaudi 2009).
Si oppone al legalismo l’inevitabile, nobile interazione tra la lettera e la ratio delle leggi, tra l’elemento volitivo – l’azione del legislatore che pone la norma – e l’elemento conoscitivo – l’interprete che con scienza e coscienza identifica dentro e tramite il dato normativo la regola da applicare al caso. Si oppongono anche le diverse espressioni dell’ordinamento costituzionale che lasciano aperti ampi spazi non legalmente predeterminati: basti pensare, ad esempio, al tema della libertà di coscienza, vera valvola di sfogo che molte costituzioni riconoscono proprio per proteggere la dignità umana da leggi legalmente trasformate in espressione di tirannia.
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Che la lettera della legge non esaurisca dunque lo spazio del giuridico non è scoperta solo del nostro tempo, un tempo – invero – fortemente determinato dalla netta prevalenza dell’interpretazione e degli interpreti. La perdurante ed inevitabile interazione tra norma e interpretazione è stata anche di recente messa in luce e documentata in una conferenza tenuta presso l’Università Cattolica di Milano da uno dei più insigni giuristi viventi, Ernst Wolfgang Boeckenfoerde. In quella sede egli ha ricordato come da sempre il compito del giurista consista nell’uso ragionato dello strumento normativo per discernere – in forza della propria competenza – quale sia la scelta migliore in una determinata circostanza. Si tratti del diritto romano, del diritto civile figlio della codificazione o del diritto anglosassone basato sull’autorità del precedente, sempre il momento in cui la norma si impatta con l’interprete e ne chiede l’intervento è un momento in cui l’elemento conoscitivo estrae dal dato – la legge scritta, il precendente, il diritto da tutelare – quanto serve a restituire al dato il suo senso, la sua ratio.
Tutto il contrario, dunque, del giustizialismo intrinsecamente legalista, che si pone come l’unica forma concepibile (ed imprudente) di giustizia e di verità. In passato, erano gli stessi giuristi a “creare” in forza della propria scienza il diritto inteso come soluzione razionale ad un problema complesso – il caso; il caso è una situazione in cui spesso due pretese egualmente degne di tutela si contrappongono: se non si rinviene una soluzione accettabile in forza della sua razionalità, la pace sociale risulta compromessa, visto che la soluzione alternativa alla pronuncia giurisprudenziale altra non può essere se non la violenza e il potere. Ma anche oggi, dopo secoli di codificazione, è noto che i principi enunciati dall’ordinamento e le regole che esso pone non possono esaurire l’esperienza, la casistica, le evenienze; per questo è necessario lasciare alla norma margini di elasticità perchè l’opera di adattamento della stessa al caso possa, pur con tutta l’imperfezione che caratterizza l’agire umano, essere aperta a scelte di giustizia e di equità.
Ed allora è bene ricordare come il costante richiamo alle regole che presiedono ai nostri sistemi democratici debba conservare intatta la consapevolezza che esse vivono dentro il contesto che le ha generate, un contesto fatto primariamente di valori da preservare, di diritti di tutelare, di principi da rispettare, lasciando che diritti, valori e principi illuminino la lastra marmorea su cui la norma è scolpita, e che la ragionata prudenza dell’interpretazione riscaldi lo sguardo freddo di chi, in nome della legge, difende senza argomentare i propri principi e afferma senza motivarli solo i propri segreti (e spesso neppure tanto segreti) scopi di parte.