Ho risciacquato i panni nel Simeto, il fiume che dai monti Nebrodi si estende per tutta la provincia di Catania. A differenza di Alessandro Manzoni, il cui “bucato” puntava a una koinè che superasse, come affermò lui stesso, quel «composto indigesto di frasi un po’ lombarde, un po’ toscane, un po’ francesi, un po’ anche latine» della prima stesura del Fermo e Lucia, io, più modestamente, avevo bisogno di scrivere una sceneggiatura per siculofoni.
La sceneggiatura si inseriva nel progetto Pon (Programma operativo nazionale) 2009-2010 realizzato dal primo istituto comprensivo Vincenzo Messina di Palazzolo Acreide a beneficio dei detenuti della Casa circondariale di Siracusa con lo scopo di “migliorare i sistemi di apprendimento”. Il progetto è stato coordinato dalla professoressa Manuela Caramanna che da alcuni anni promuove nel carcere siracusano laboratori teatrali insieme a Emanuele “Liddo” Schiavo, a cui è affidata la regia. Ed è proprio quest’ultimo che, per il laboratorio incluso nel progetto Pon, aveva caldeggiato il ricorso a un copione adatto alla consuetudine linguistica dei detenuti.
Per molti di loro, infatti, l’italiano diversamente dall’idioma natio non è la prima lingua. È quella dei giudici e degli avvocati, cioè della necessità e della burocrazia: è la lingua della legge. Un laboratorio teatrale, invece, rientra tra le attività “trattamentali” che gli istituti di detenzione propongono alla libera adesione dei reclusi. Un sostrato linguistico familiare diventa perciò l’invito a inoltrarsi in un campo neutro nel quale anche le persone che vengono da fuori – insegnanti e volontari – sono disposti a stare.
Ma una zona franca non significa un luogo in cui vige l’anarchia. Tutt’altro. Se ne sono accorti i detenuti/attori del carcere di Siracusa, lungo un percorso durato sei mesi e conclusosi con la messa in scena dell’opera U zoppu il 19 luglio 2010. Si sono accorti della fatica necessaria «per affondare nei primordi della materia umana», come scrive Giovanni Testori nel suo manifesto programmatico Il ventre del teatro, materia in cui le«parole abbiano un’intensità fisica».
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U zoppu, “Lo zoppo”, è una pièce in due atti liberamente tratta dal Filottete di Sofocle. Il testo originale racconta la vicenda di Filottete, arciere infallibile abbandonato sull’isola di Lemno a causa di una ferita infetta da cui emana un odore insopportabile. Sono passati dieci anni da quando Ulisse e gli altri capi greci decisero di disfarsi del compagno d’armi. Adesso, però, è stata vaticinata l’impossibilità di sconfiggere Troia senza l’arco e le frecce di Filottete, motivo per cui Ulisse convince Neottolemo, giovane figlio di Achille, a raggirarlo con l’inganno per impossessarsene.
Prendendo le mosse dalla tragedia, U zoppu ingigantisce le situazioni e aggiunge alcuni personaggi non presenti nella versione sofoclea alternando linguaggi diversi in funzione dei ruoli. In particolare inventa e fa esprimere la figura del comandante della nave in italiano, con periodi ampollosi e roboanti tipici del miles gloriosus di plautina memoria, mentre gli altri personaggi comunicano in un siciliano standardizzato, seppure con forti venature catanesi.
Luigi Pirandello aveva condotto un esperimento filologico simile. Su richiesta dell’autore conterraneo Nino Martoglio aveva tradotto il dramma satiresco Il ciclope di Euripide scrivendo U ciclopu. Nella rielaborazione comica dell’episodio omerico, il premio Nobel utilizza tre registri diversi: uno per Sileno, uno per Polifemo e un altro per Ulisse, in modo da connotare l’appartenenza a una classe sociale differente. In bocca al primo, divinità selvaggia dei boschi, mette una parlata da bassifondi; l’eloquio del ciclope, invece, appartiene all’ambito contadino, con frasi semplici ed elementari; il re di Itaca, infine, spazia continuamente dall’italiano al siciliano, a dimostrazione del suo cosmopolitismo.
L’anno scorso anche Liddo Schiavo ha fatto rappresentare tra le mura della Casa circondariale Il ciclope di Euripide. Il suo adattamento, però, scritto una ventina di anni fa, non è una mera traduzione dall’originale. È un’operazione volutamente “manipolatoria” in cui l’incontro tra il greco Ulisse e il siciliano Polifemo vede nel primo il prototipo del faccendiere, dello speculatore che viene da fuori con l’unico intento di sfruttare la buona fede degli autoctoni per arricchirsi. E infatti ruba il formaggio e le altre povere cose del gigante, anticipando un lungo elenco di colonizzatori dell’isola.
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Il 19 luglio i detenuti/attori, davanti a una platea formata da un centinaio di persone tra internati e ospiti esterni, hanno solcato le onde immaginarie sulla nave achea e hanno calpestato l’isola di Lemno grazie alle scenografie realizzate da Giorgio Zacco, inventore acuto di allestimenti e di storie. Gli interpreti indossavano i costumi dell’Inda, l’Istituto nazionale del dramma antico a cui si devono le rappresentazioni classiche nel teatro greco di Siracusa. La scelta è stata fatta per ribadire, da parte degli organizzatori, la serietà di una proposta in cui il laboratorio non va inteso quale riempitivo per occupare qualcuna delle lunghe giornate di reclusione, ma come esercizio laico di ascesi collettiva.
Mandare a memoria le parti assegnate, ripetere continuamente gesti fino a sfiorare la perfezione, immedesimarsi nei sentimenti dei personaggi, obbedire alle indicazioni del regista, cooperare con gli altri alla buona riuscita della rappresentazione: tutto questo ha in sé un valore educativo, più di quanto possa averlo perfino l’esplicitazione di un “messaggio” veicolato dal testo (che pure esiste, ad esempio, nel personaggio dello sciancato Filottete in cui chiunque si può riconoscere, solo per il fatto di essere ferito dalla vita).
La direttrice della Casa circondariale di Siracusa Angela Gianì, a conclusione della perfomance, ha riconosciuto di aver assistito a qualcosa di inaspettato, di superiore alle sue previsioni. «Ci vogliono persone come la professoressa Caramanna e Liddo Schiavo – ha detto – perché negli istituti possano accadere cose di questo tipo». E ci vogliono pure carcerati disposti a intraprendere un viaggio «nei primordi della materia umana». Carcerati come gli attori di U zoppu: Silvestro, Daniele, Michele, Antonino E., Antonino R., Lorenzo, Vito, Francesco I., Francesco M., Francesco T., Salvatore, Attilio, Giuseppe, Giovanni.