Salve Regina, madre di misericordia,
vita, dolcezza e speranza nostra, salve.
A te ricorriamo, esuli figli di Eva;
a te sospiriamo gementi e piangenti in questa valle di lacrime.
Orsù dunque, avvocata nostra, rivolgi a noi gli occhi tuoi misericordiosi.
E mostraci, dopo questo esilio, Gesù, il frutto benedetto del tuo seno.
O clemente, o pia, o dolce Vergine Maria!
In tutti i monasteri cistercensi del mondo, cantiamo ogni sera il Salve Regina. Attraverso le nostre preghiere, vogliamo essere ascoltati da Dio, da Maria, dai Santi e dagli Angeli. Ma ogni preghiera della Chiesa è fatta anche per essere ascoltata da noi stessi, per imparare a pregare, per imparare a vivere secondo la fede.
Mediante il Salve Regina, affidiamo la nostra giornata e la nostra vita, e la notte che comincia, all’intercessione della Madre di Dio. Poiché si rivolge alla Madre, è una preghiera di fiducia, una fiducia ben fondata, perché Maria è Madre e Regina, ha un potere, un’autorità unica in Cielo, presso Dio, perché è la Madre di Dio, la Madre del Re.
Tutti i titoli e le qualità che questa preghiera attribuisce a Maria si fondano sulla sua Maternità divina. Gesù è «il frutto benedetto del suo seno», e, in quanto Madre di Gesù, Maria è Madre di misericordia, il che può intendersi anche: Madre della Misericordia. Poiché Maria è Madre di Dio, Madre di Gesù, Madre della Misericordia, è la nostra migliore Avvocata, nel senso innanzitutto letterale: colei verso la quale va la nostra invocazione (ad-vocata), ma anche nel senso che ci saprà difendere, che difenderà la nostra causa, nel migliore dei modi. Con lei, mediante lei, siamo sicuri di averla vinta, anche con Dio. Che cosa potrebbe rifiutare Gesù a sua Madre, il Padre alla sua Figlia prediletta, lo Spirito alla sua Sposa?
Così possiamo rivolgerci e affidarci a lei in tutta la miseria della nostra umanità, e con tutte le miserie di tutta l’umanità. Ci rivolgiamo a lei in quanto «figli di Eva». La nostra prima madre ci ha esiliati dal Paradiso verso una «valle di lacrime». Maria è la nostra nuova Madre in quanto Madre del Redentore, e il fatto di lasciarci generare di nuovo da lei, ci fa risalire dalla valle delle lacrime e dell’esilio verso la visione di Gesù, il nostro vero e definitivo Paradiso.
Tutto ciò accade nell’ambiente materno che Maria crea intorno a noi, nella Chiesa. Il Salve Regina insiste sui termini della dolcezza, della clemenza, della misericordia, della consolazione. Noi gridiamo, gemiamo, piangiamo, ma la Madre acquieta, consola, abbraccia.
Ciò può sembrare sentimentale, ma solo a chi non ha mai sentito o voluto sentire, ed ascoltare, in sé e negli altri, il grido dell’umanità ferita, esiliata, peccatrice, il grido della nostra miseria. Non appena si sperimenta un poco il dramma della condizione umana, non si percepiscono più le parole e le espressioni del Salve Regina come sdolcinate, perché si comprende che niente è più necessario all’uomo ferito della dolce e misericordiosa maternità di Maria.
Ora, tutto ciò Maria ce lo dice con il suo sguardo, con i suoi «occhi misericordiosi». Gli occhi misericordiosi di Maria ci mostrano la Misericordia di Dio, il Dio di Misericordia: Gesù. Se Maria volge verso di noi i suoi occhi misericordiosi, noi vediamo in essi, come in uno specchio, il Cristo misericordioso. Nello sguardo di Maria, vediamo lo sguardo di Gesù.
In Maria troviamo uno sguardo che risponde al grido della nostra miseria, al gemito della nostra miseria, quel grido che si leva in noi nella valle di lacrime in cui ci troviamo. Siamo in basso e sospiriamo verso qualcosa che ci alzi, che ci faccia salire e uscire. L’immagine della valle di lacrime esprime una condizione di abbassamento e di chiusura. È la stessa condizione descritta da Dante all’inizio dell’itinerario della Divina Commedia.
L’uomo, solo, si ritrova in una condizione di abbassamento e di chiusura che contraddice la sua sete di felicità. Questa condizione è una valle di lacrime, perché il cuore non può essere che triste, può solo piangere quando percepisce di ritrovarsi chiuso in una condizione che contraddice la sua natura, che contraddice ciò per cui si sente fatto, che contraddice il suo profondo desiderio. Dalla valle di lacrime non si esce da soli, non si esce perché si vuole uscire. Occorre un aiuto; occorre qualcun altro, capace di accompagnarci, di guidarci. Tutta la Divina Commedia di Dante è il poema dell’uomo accompagnato verso il suo destino, verso la liberazione, verso la sua vera felicità; dell’uomo che accetta di essere guidato, che accetta di seguire e di domandare a coloro che con la ragione e la grazia possono, in nome di Dio, condurlo alla Salvezza. È dunque il poema dell’uomo che accetta di seguire la Chiesa.
Il vero grido del nostro cuore – Ma prima che dalla valle di lacrime esca l’uomo accompagnato verso il suo destino, occorre che da questa valle di lacrime esca il grido, il gemito; un gemito che, prima di essere sentito da chi ci aiuterà, deve essere sentito da chi l’esprime, o, piuttosto, da chi lo porta in sé, senza volerlo, senza veramente saperlo.
Non è vero che sappiamo gridare, sospirare, gemere, piangere, per riprendere semplicemente i termini utilizzati nel Salve Regina. Infatti, queste espressioni del desiderio, queste espressioni del bisogno, noi le soffochiamo. Le soffochiamo nei nostri lamenti, nei nostri rancori, nelle nostre accuse rivolte agli altri. Quando gridiamo, non gridiamo veramente: facciamo dei capricci, come i bambini che battono i piedi, che rompono i loro giocattoli, che si liberano violentemente dalle braccia della loro mamma.
Gridiamo perché i nostri progetti e desideri non sono soddisfatti, non per esprimere l’attesa di un altro, il bisogno di un altro. Analizziamo un poco le nostre grida, i nostri gemiti, le nostre lacrime: domandano un altro o domandano qualcosa? Chiedono la presenza di qualcuno, o semplicemente ciò che desideriamo, ciò che vogliamo. E spesso, le nostre grida sono così ripiegate sul nostro progetto che anche quando chiedono un’altra persona, la riducono a una cosa, a una cosa secondo i nostri desideri, una cosa fabbricata da noi, che deve corrispondere al nostro progetto, dunque al nostro possesso. «Ho bisogno di te, per tenerti e usarti come voglio!»: è questa la traduzione di molte nostre grida e gemiti rivolti agli altri e anche a Dio.
È come il gemito di Marta: «Ho bisogno di mia sorella, affinché sia e faccia ciò che voglio!» (cfr. Lc 10,40). Allora, Gesù la richiama, non a far niente, non a lasciar perdere la preparazione del pranzo, ma a spingere il bisogno del suo cuore e il suo grido fino a Lui, fino a Gesù presente nella sua vita, come fa sua sorella Maria. Il problema non è ciò che si fa o non si fa; il problema non è essere chiamati a una vita più contemplativa o più attiva: il problema è spingere fino alla fine il grido del nostro cuore, il bisogno del nostro cuore: di spingerlo fino a Cristo, fino al bisogno di Cristo. Ma «spingere» non è il termine migliore. Non si tratta di «spingere» il nostro desiderio, ma di lasciarlo andare verso il suo vero fine, di non riprenderlo ripiegandolo sul nostro progetto, che è sempre più meschino del progetto del Dio che ha fatto il nostro cuore. Si tratta dunque piuttosto di lasciare che il desiderio ci trascini fino a Cristo, anche quando questo desiderio emerge in noi in una situazione terra terra, come il pranzo che sto preparando o il fastidio davanti alla pigrizia di mia sorella, del mio collega di lavoro o l’atteggiamento del tal membro della mia comunità. La vita è un efficace strumento per «spremere» dal nostro cuore il desiderio di Dio, ma troppo spesso, quel desiderio che, per sua natura, è destinato al Signore, lo rinchiudiamo subito nella pentola, con lo spezzatino che cuoce male.
L’avvenimento dello sguardo – Che cosa può liberarci dalla riduzione del nostro desiderio in lamento, dalla riduzione del grido del nostro cuore in accusa dell’altro, in critica, in vittimismo?
«Orsù dunque, avvocata nostra, rivolgi a noi gli occhi tuoi misericordiosi!».
È proprio così: ci occorre uno sguardo, uno sguardo diverso dal nostro, uno sguardo che ci rivela qualche cosa di più grande di noi stessi, del nostro bisogno. Se non percepisco qualcosa di più grande del mio bisogno, del mio desiderio, è normale che sia frustrato, che sia scontento, arrabbiato. Infatti, se non c’è niente da desiderare, il desiderio è un tormento gratuito, una piaga senza ragioni il cui solo scopo è di tormentarci. Dunque, un «qualcosa» nel mio cuore che mi affretto a soffocare, a ingannare, a anestetizzare. Se non c’è qualcosa di più grande da desiderare, il desiderio è una malattia, un’allucinazione. E tuttavia, la vita continua a tormentarci. L’uomo contemporaneo è indaffarato a dover vivere nella valle di lacrime facendo finta di non aver bisogno di consolazione. Ma resta nella valle di lacrime, anche quando crede di uscirne attraverso false uscite di sicurezza.
Ci occorre uno sguardo, uno sguardo diverso dal nostro, uno sguardo che ci riveli qualche cosa di più grande di noi stessi, del nostro bisogno.
Questo sguardo esiste e si è manifestato. Si è posato sull’uomo, in uno sguardo di carne, lo sguardo di Cristo, Dio fatto uomo affinché Colui che vede tutto possa guardarci come ci guarda nostro padre o nostra madre, nostro marito o nostra moglie, nostro fratello, il nostro amico. Ci occorre uno sguardo che ci sorprende anche e soprattutto quando stiamo esprimendo male il nostro desiderio. Immaginate Marta che si getta su Gesù interrompendo senza riguardo il suo insegnamento; immaginate i suoi occhi pieni di collera, quello sguardo di collera di cui le donne sono specialiste, quello sguardo che mitragliava tutti i presenti, a cominciare da sua sorella; immaginate questo sguardo che si ritrova guardato da Gesù!
L’avvenimento cristiano è questo. Il nostro sguardo, così come esso si sprigiona dalla condizione umana mal vissuta, che si scopre guardato dagli occhi dell’Eterno, del Misericordioso, del Dio Creatore e Redentore, del Buon Pastore che dà la sua vita per le sue pecore! Il Cristianesimo è questo. E se non è questo, non è, è inutile, inconsistente, non cambia niente, né in noi, né nel mondo.