Perché un libro sulle piccole e medie imprese nostrane si intitola “Il meglio del piccolo”? Probabilmente perché l’autore è alla ricerca di un nuovo slogan che sostituisca quello ormai un poco logoro del “piccolo è bello” di Schumacher: di tempo ne è passato – fu pubblicato per la prima volta nel 1973 – da quella geniale, e in parte profetica opera. E anche se recentemente Slow Food Editore ha ritenuto utile riproporne un’edizione aggiornata nella traduzione, è doveroso riconoscere che, nel frattempo, si è definitivamente affermata, almeno nella parte meno ideologizzata di studiosi e commentatori, l’idea della ricchezza e, in parte, necessità del polimorfismo industriale.
Non è importante il colore del gatto, potremmo dire che sia grande o piccolo, l’importante è che acchiappi i topi, che sia in grado cioè di stare sul mercato in maniera profittevole nel lungo periodo. E dunque anche se qualcuno si intestardisce tuttora ad affermare che “piccolo è brutto, anzi bruttissimo” (R. Abravanel – L. D’Agnese, Regole, Garzanti, 2010) è bene andare oltre e cercare uno spazio di confronto, un ideale centrocampo dove i capitani delle squadre avversarie possano dialogare perché, nell’interesse del Paese, la partita possa continuare.
Ecco allora che “il meglio del piccolo” lascia intendere che non è necessariamente tutto oro ciò che luccica e che anche le piccole imprese hanno di che fare autocritica e migliorarsi, ma, forse, perché ciò avvenga è meglio partire dal molto di positivo che questa realtà industriale ha fatto e, per l’autore, continuerà a fare nel panorama economico internazionale. Forse è giunto il momento di chiarire che stiamo parlando dell’ultimo libro di Paolo Preti (Il meglio del piccolo. L’Italia delle PMI: un modello originale di sviluppo per il Paese, Egea, 2011, pp. 214, 25 €) che da sempre, anche come editorialista di questo giornale, si è occupato di tali argomenti.
In verità, in questo libro non si parla solo di dimensione aziendale, ma anche di proprietà familiare, di vocazione imprenditoriale e di prevalenza del settore manifatturiero: quattro caratteristiche che per l’autore costituiscono una peculiarità nazionale e dalla forte valenza positiva. La crisi economica che stiamo attraversando non solo non ne scalfisce l’importanza, ma anzi la conferma perché da questo difficile passaggio usciremo probabilmente con meno imprese e forse un poco più grandi, ma sempre così caratterizzate.
Si tratta di elementi peculiari fortemente criticati, soprattutto dall’estero, da parte di chi giudica senza conoscere approfonditamente, ma restando in superficie: l’imprenditorialità diventa il limite dell’uomo solo al comando, la famiglia degenera nel familismo amorale, la piccola dimensione nel nanismo industriale, la prevalenza del manifatturiero quasi ci consegna al terzo mondo economico. Se così fosse, l’azienda Italia sarebbe fallita da diversi anni. E invece no, si tratta, come per le nocciole effigiate in copertina, di un frutto che va assaporato rompendo i luoghi comuni.
Certo c’è anche, come ovvio, spazio per migliorarsi e non solo agendo fuori dai cancelli delle aziende, nel cosiddetto sistema Paese: qui farà molto, inizialmente da un punto di vista simbolico poi anche operativo, lo Statuto delle imprese portato avanti con tenacia da Raffaello Vignali e il cui testo, in discussione alla Camera da oggi, chiude il libro.
Il cambiamento deve avvenire anche all’interno delle aziende e delle teste degli imprenditori come, in particolare, sottolinea Enzo Rullani nella prefazione: lo stormo delle piccole e medie imprese, creatosi come di incanto per affiancamenti progressivi e su base istintiva, deve prendere maggiore coscienza di sé e trasformarsi in volontà lucidamente perseguita. Buon lavoro, cari imprenditori. Nell’interesse di tutti.