Questo articolo continua la riflessione dell’autore sul tema Wikileaks, libertà di informazione e diritti. La prima parte è stata pubblicata mercoledì 23 febbraio.
La recente divulgazione dei documenti istruttori e delle intercettazioni telefoniche riguardanti il cosiddetto “Rubygate” da parte di Dagospia pone significativi rilievi, quantomeno tendenziali, in tema di demarcazione dei confini fra politica e giustizia.
Secondo l’ordinaria dinamica processuale la notitia criminis costituisce l’originaria informazione di un fatto di rilevanza penale, la cui comunicazione al Pm o alla polizia giudiziaria segna l’avvio delle indagini preliminari. Esse sono finalizzate a consentire allo stesso Pm di assumere le proprie determinazioni in ordine all’esercizio dell’azione penale, a sua volta proiettata sia al definitivo accertamento del fatto di reato, sia a comminare la relativa sanzione penale. Il segreto investigativo in tale dinamica assume una duplice ragion d’essere, tutelando sia il buon esito dell’indagine da eventuali influenze esterne, sia gli ulteriori interessi costituzionalmente rilevanti, fra i quali quello della dignità della persona offesa e di quella indagata. Il rapporto fra indagine, azione e sanzione penale, pertanto, è diretto, esclusivo e necessario. La sanzione, infatti, pur essendo eventuale, in quanto connessa al positivo accertamento del fatto sottoposto a giudizio, resta comunque l’unica conseguenza dell’indagine penale, posto che quest’ultima è priva di finalità diverse da quella del giudizio in corso.
Nel caso di divulgazione telematica di atti d’indagine coperti da segreto, invece, la dinamica rappresentata assume un pericoloso snaturamento. La divulgazione in forma generalizzata e integrale dei documenti processuali, specialmente nel caso di situazioni politicamente sensibili, non solamente provoca le medesime conseguenze negative già rilevate più in generale a proposito della divulgazione dei documenti riservati; più ancora, corrompe la linearità del procedimento penale, alterandone la finalità (limitata all’accertamento del reato), vanificando le garanzie costituzionalmente riservate ai soggetti coinvolti e oltrepassando i confini fra i diversi poteri dello Stato.
In tale inedita eventualità il rapporto fra azione e sanzione penale finisce di essere esclusivo. Se l’effetto eventuale e diretto dell’azione giudiziale resta la sanzione penale, nuovi effetti vengono ora a prodursi in via immediata e indiretta.
Una volta divulgati, gli atti d’indagine cessano di avere una portata limitata al caso specifico e assumono un ambito di riferimento potenzialmente illimitato, coincidente con l’opinione pubblica nel suo complesso; anche il relativo contenuto, di conseguenza, si presta a una pari evoluzione interpretativa. Privato del naturale ambito processuale, il contenuto istruttorio diviene suscettibile di nuove e diverse letture a seconda del contesto preso in considerazione. Il giudizio di rilevanza sui fatti sottoposti al processo, per tale via, viene ad assumere una differente e indebita connotazione, interessando non più solo l’originario piano della responsabilità penale, bensì, a seconda dei casi, anche quelli della responsabilità etica, deontologica e, nel caso di comportamenti politicamente significativi, della responsabilità politica. Così che, in definitiva, i medesimi fatti possono essere intesi al contempo come penalmente irrilevanti e come politicamente rilevanti.
Si tratta di un’eterogenesi dei fini che stravolge e corrompe la natura dell’indagine penale. Questa assume in via di fatto una duplice e concorrente funzione, nel senso che a quella propria e procedimentale se ne aggiunge un’altra, impropria ed extraprocedimentale, tale da provocare effetti rilevanti soprattutto sul piano della responsabilità politica. Oltre ad assolvere la tradizionale funzione, tesa ad accertare la responsabilità giuridica e a comminare l’eventuale sanzione penale, l’azione penale riveste così un’ulteriore e concorrente funzione materiale, diretta ad accertare la responsabilità politica e a comminare l’eventuale relativa sanzione, potenzialmente capace di destabilizzare il rapporto governanti-governati.
Anche la notitia criminis, di conseguenza, assume una connotazione più fluida e funzionale. Essa viene ora a configurarsi in senso strumentale e politicamente significativo, rappresentando la condizione imprescindibile per ottenere (e divulgare) informazioni d’interesse politico diversamente inaccessibili; appare come l’occasione (fortuita e propizia) indispensabile per acquisire (e diffondere) notizie, conseguibili solamente tramite il massiccio dispiego di strumenti conoscitivi e tecnologici inibiti ai privati.
Solo in presenza della notizia di reato, infatti, è possibile attivare ingenti apparati di polizia giudiziaria e intraprendere penetranti e radicali indagini a tutto campo, da formalizzare in appositi documenti processuali suscettibili di (verosimile, se non inevitabile) divulgazione in forma generalizzata e integrale. Il tutto – ancora una volta – indipendentemente dal vincolo del segreto investigativo e dalla congruenza dei fatti raccolti con quelli oggetto del giudizio. La produzione e diffusione dei documenti istruttori, del resto, anche se eventualmente non congruente, smisurata e irrilevante al fine dell’accertamento della responsabilità penale, è pur sempre utile e significativa al fine dell’accertamento della responsabilità politica.
Una volta degradata l’indagine penale alla stregua di una forma invincibile e indiscriminata di acquisizione di notizie (“libertà d’informarsi”) e di divulgazione dei relativi documenti (“libertà d’informare”), si dimostrano particolarmente significative le relative implicazioni sui piani della divisione dei poteri e delle garanzie parlamentari.
Quanto alla separazione dei poteri, si completa per tale via la sostituzione del circuito politico-rappresentativo tradizionalmente disposto dal sistema costituzionale, nel senso che è portata alle estreme conseguenze la surrogazione degli attori coinvolti nel collegamento fra corpo sociale e apparati istituzionali, già avviata con l’indagine giudiziaria di “Mani pulite”.
Nel tradizionale modello di governo parlamentare, infatti, detto collegamento era riservato in via istituzionale e permanente soprattutto ai partiti politici, chiamati a evidenziare le diverse richieste sociali, formare l’opinione pubblica e trasferire i relativi interessi negli organi statali. Nel circuito politico-rappresentativo sviluppatosi a seguito della “rivoluzione” giudiziaria di Tangentopoli, per contro, il collegamento ordinario fra corpo sociale, partiti politici e Parlamento è stato soppiantato da quello alternativo fra corpo sociale, mass-media e magistratura.
E così, per un verso, la funzione prima svolta in prevalenza dai partiti è stata surrogata dai mass-media, che hanno sottratto ai primi il monopolio dell’informazione e della formazione dell’opinione pubblica; per altro verso, la funzione tradizionalmente svolta dalla magistratura è stata caricata di ulteriori connotazioni, essendosi posta l’autorità giudiziaria quale “diretta espressione dell’opinione pubblica, vendicatrice dei suoi diritti” e depositaria della “missione di liberare l’Italia dalla corruzione” (Luciano Violante).
Orbene, proprio l’equivoca evoluzione tratteggiata è portata alle estreme conseguenze dall’incipiente prassi della divulgazione telematica in via generalizzata e integrale degli atti d’indagine. Il ruolo di collegamento fra apparati istituzionali e corpo sociale, tradizionalmente riconosciuto ai partiti politici e successivamente monopolizzato dai mass-media, è ora occupato in via di fatto dal potere giudiziario. L’indagine penale, oramai affrancata dai rigidi vincoli del sistema processuale, vale ora ad acquisire e divulgare notizie politicamente significative. Surrogato in tal modo il giornalismo d’inchiesta (di antica memoria), anche il ruolo dei mass-media resta svuotato del proprio principale apporto, esponendosi al rischio – ancora una volta – di andare al rimorchio dell’onda emotiva provocata dalla divulgazione degli atti d’indagine.
C’è poi un’ulteriore conseguenza che riguarda il piano delle garanzie parlamentari, divenute inadeguate alle nuove esigenze di tutela. Le immunità, infatti, trovano la propria ragion d’essere nell’esigenza storica di preservare l’azione politica del parlamentare da eventuali azioni e sanzioni (solamente) giuridiche capaci di impedirne l’espletamento. Lo sviluppo improprio dell’indagine penale d’inchiesta, tuttavia, rende inadeguata tale prospettiva. Sdoppiata la funzione dell’azione penale, capace ora di provocare anche un giudizio mediatico e popolare volto alla comminazione di una sanzione (solamente) politica, il tradizionale apparato di garanzie costituzionali si mostra ora incapace di fronteggiare le nuove evenienze. Il parlamentare, di conseguenza, resta esposto al sindacato politico dell’opinione pubblica riguardo a fatti che, avulsi dall’originaria dimensione processuale, sono variamente interpretabili e manipolabili.
Si spiega così – per concludere – il motivo per cui appare riduttivo e antistorico l’assioma ossessivamente ripetuto nei talk show televisivi, secondo cui il parlamentare sottoposto a indagine penale dovrebbe difendersi solamente nel processo e non già dal processo. Tale assunto, infatti, si riferisce a una dimensione dell’azione penale oramai superata dagli eventi e smentita dai fatti. Per contro, una volta realizzata l’estensione della sfera d’interesse dell’azione giudiziaria, dall’ambito processuale e penale a quello mediatico e politico, anche la sfera di reazione del diritto di difesa del politico-imputato deve ottenere una pari capacità di reazione.
Se il contesto di valutazione degli atti d’indagine non è più solo quello processuale, ma è anche quello della piazza mediatica, anche l’attività difensiva del parlamentare deve commisurarsi con tale nuova dimensione. Il tutto, con un definitivo snaturamento delle tradizionali garanzie costituzionali, la cui mancata considerazione falsa e sfasa i termini del dibattito politico-istituzionale di questi tempi sulla demarcazione dei confini fra politica e giustizia.