Fausto Bertinotti, una carriera politica di comunista, di sindacalista, di uomo delle istituzioni, coronata da un imprevisto premio alla memoria di Giovanni Paolo II. Perché da non credente critico come si definisce, ma aperto alle domande fondamentali, ha sempre provato per il Papa polacco ammirazione e stima per la sua visione dell’uomo. Ne parla con ritegno, e si è rifiutato in questi giorni convulsi ai talk show che liquidano 27 anni di pontificato in chiacchierate superficiali, condite da rivelazioni che sconfinano nel gossip.
«E’ stato un Pontefice unico e necessario per il movimento operaio. Ricordo un suo discorso in occasione del Natale ai lavoratori, in cui disse: la Chiesa non ha le parole adatte per parlare con voi. Una prova di grande umiltà che poteva dare solo chi ha avuto un’esperienza diretta nel mondo del lavoro. E lui coi lavoratori ci era stato, come manovale nelle fabbriche della Solvay, e a fianco degli operai nella pagina più esaltante del sindacato della seconda metà del 900. Il suo atteggiamento di ascolto era rivoluzionario, quando invece domina la cattedra, nella Chiesa come nella politica, la presunzione di interpretare tutto, di dominare il pensiero».
Fu una lettera di Rocco Buttiglione, confessa, a fargli cogliere tutta la novità della forza e della necessità del movimento operaio che Wojtyla aveva reso protagonista. E anche di una sua spiritualità che il sindacato italiano non aveva colto.
Erano anni particolari, eravamo nel pieno di un’esperienza unitaria, attraversata anche dal cattolicesimo, con la prova dei preti operai, la presenza nella mia Torino di un vescovo come Michele Pellegrino. Quando scatta l’evento Solidarnosc siamo stati immediatamente dalla loro parte. Anzitutto perchè eravamo antisovietici. E ci mettemmo subito a raccogliere soldi da mandare in Polonia. Ricordo quando Bruno Trentin, allora segretario della Cgil, mi fece incontrare Adam Michnik: giornalista, attivista, sostenitore del movimento degli operai sotto il totalitarismo; eravamo uguali, impressionante…ci faceva velo però il fatto che lui era vissuto nella Polonia comunista, e che l’anticomunismo era diventato una weltanschauung, un elemento incancellabile della sua esistenza.
Il lavoro, la giustizia, la pace. Una presenza e un pensiero forti, per un Papa che non aveva dalla sua poteri forti, e che si trova a traghettare un civiltà in transizione, nel mondo e in Italia.
Finiva l’idea dei due blocchi contrapposti, finiva per noi la prima Repubblica, con l’assassinio di Aldo Moro. Wojtyla si pone a dialogare con questa realtà nuova, puntando sulla presenza e sull’amicizia, come comunità aperta al mondo. E, per usare la formula paolina, sul non essere “né servi né signori”. Su questa idea di uomo non posso che sentire una sintonia totale. Sono costretto a fare a meno del finale di questa formula, cioè né servi nè signori, ma “in Cristo”. Continuo a pensare che la politica può esercitarsi in maniera alta solo in quanto accetta il carattere finito dell’uomo…ma mi piace insistere sul tema del rapporto tra verità e ricerca della verità, che interessa oggi ogni persona inquieta come me.
Per lei che appartiene a una cultura che ha fatto dell’internazionalismo il suo programma, avrà contato il fatto che con i suoi viaggi ci ha fatto conoscere il mondo, e molti paesi del mondo trascurati e oppressi.
Questo Pontefice ha dato una fisicità a questo indagare il mondo, ha fatto del viaggio una modalità di conoscenza e di reciprocità. Quando mi capitò di andare a trovare Fidel Castro in preparazione della visita di Giovani Paolo II a Cuba, posso testimoniare un’emozione che trascendeva del tutto il rapporto tra il capo rivoluzionario di un piccolo stato e il Papa di una grande religione. C’era l’attesa di un incontro.
Cosa rimprovera, da un punto di vista politico, al suo pontificato, cosa non riesce a comprendere?
Senza dubbio l’attacco alla teologia della liberazione. Il suo viaggio in America Latina aveva questo scopo primario, la lotta contro l’unico seme di cambiamento e di sostegno ai poveri in un continente soverchiato dalle dittature militari. Il Pontefice non vide la forza di un’esperienza così ricca, forse perché oscurato dall’esistenza di un blocco comunista e precipitato per questo in un giudizio liquidatorio e parziale. Non fu usato lo stesso rasoio nei confronti di altre esperienze teologiche che mettevano in pericolo l’unità della Chiesa. In questo Papa così generoso fu secondo me un errore di ingenerosità.
Sapeva il rischio di una deriva materialista, di una fede utilizzata come supporto a un’ideologia contraria all’antropologia cristiana. Fu ugualmente netto nel condannare le derive del capitalismo e a denunciare l’assurdità e inutilità della guerra.
Fu l’unico ad alzare la voce, è così. Ma credo comunque che in chiave politica il suo pontificato vada distinto in due parti. Quando cade il comunismo Giovanni Paolo è più libero, e incontra tutto il mondo: la giustizia diventa il suo tema fondamentale. Vede meglio cosa sta germinando nel capitalismo riguardo alla scristianizzazione, alla mercificazione dell’uomo, alimentata dalle avvisaglie della globalizzazione. Quando in questo quadro emerge la drammaticità della guerra si rende conto che questo mondo unificato dal mercato non è il mondo unificato. La povertà torna la chiave di volta della sua presenza secolare nel mondo.
(Monica Mondo)