STORIA/ L’”inventore” della globalizzazione? Chiedete a Vasco da Gama

- Martino Sacchi

Le scoperte geografiche sono dovute alla mentalità moderna? Il parere di MARTINO SACCHI, autore de Terra in vista! Le grandi esplorazioni oceaniche del XV secolo, appena uscito

mare_navigazione_rinascimentoR400 Da un disegno dell'Atlante Miller, 1519 (Immagine d'archivio)

Il periodo storico indicato convenzionalmente come “età delle esplorazioni” è stato sicuramente uno dei momenti più importanti della storia dell’occidente. Comunque lo si voglia valutare, ha aperto l’Europa ad altre culture e ad altre economie, quasi sempre sconosciute fino a quel momento, e ha innescato un lungo confronto che, in forme alterne, giunge fino a oggi. Proprio per questo vale la pena tornare a riflettere, in piena età di “globalizzazione”, come si ama dire oggi, sul momento in cui è iniziato tutto. Per prima cosa, occorre ribadire una cosa nota ma che viene continuamente dimenticata: è il tardo medioevo a sentire il bisogno di spingersi oltre i confini degli spazi conosciuti. Fino almeno al viaggio di Vasco da Gama del 1497-98, gli esploratori furono spinti da ideali e bisogni essenzialmente medievali: la Crociata, il Prete Gianni, le spezie, le Indie, cui vanno aggiunti l’inestinguibile curiosità umana (il veneziano Alvise Cadamosto, che viaggiò lungo le coste africane nel 1455-56, insiste con orgoglio sulla sua volontà di vedere cose mai viste prima da altri suoi compatrioti) e naturalmente la fame di oro.

Un altro luogo comune che andrebbe scardinato una volta per tutte è quello secondo cui gli uomini del medioevo erano convinti che la terra fosse piatta e che Cristoforo Colombo è stato il primo a sostenere il contrario, progettando il suo viaggio proprio sulla base di questa nuova convinzione. Al contrario, gli intellettuali e anche i capitani delle navi sapevano benissimo che la terra è sferica e avevano anche un’idea abbastanza precisa delle sue dimensioni. Solo sulla forma e le dimensioni delle terre emerse non erano informati in modo adeguato: per loro l’ekumene (l’insieme delle terre abitate) era una specie di piccola “calotta” formata da Europa, Asia e Africa settentrionale, circondata da un unico immenso oceano.

Inoltre erano convinti che la fascia a cavallo dell’equatore fosse inabitabile perché qualitativamente diversa dalle due fasce (o “climi”) temperate che si trovavano rispettivamente nell’emisfero nord e in quello sud (le due fasce estreme, attorno ai poli, erano considerate anch’esse inabitabili). Solo agli inizi del Cinquecento, con i viaggi di Vespucci, si entrò in una fase nuova, con la progressiva presa di coscienza che la serie di terre scoperte tra il 1492 e il 1503 (Cuba, Haiti, Antille, Portorico, Venezuela, Terranova, Brasile, Honduras) non andavano concepite come le propaggini orientali dell’Asia (così credeva Colombo) o come una serie di isole sconnesse le une dalle altre ma come un nuovo, immenso continente. Un interessante e significativo sintomo di questo cambiamento di prospettiva è l’oblio in cui cade in quegli anni il nome di Colombo, che non appare praticamente mai nelle discussioni degli intellettuali; per fare un esempio ben noto Raffaele Itlodeo, il protagonista dell’Utopia di Thomas More (pubblicata nel 1516), ha navigato a lungo con Amerigo Vespucci (e non con l’esploratore genovese) prima di scoprire l’isola “che non è in nessun luogo”.

Le esplorazioni dei primi vent’anni del Cinquecento quindi non completano affatto il ciclo dei viaggi quattocenteschi, che semmai trovano il loro completamente logico nell’epopea di da Gama: aprono invece uno spazio del tutto nuovo, mentale prima ancora che geografico, che verrà gradualmente riempito nel corso del secolo successivo, fino ai viaggi dei grandi esploratori olandesi dei primi decenni del XVII secolo. Resta però vero che il passo decisivo, quello che avrebbe permesso tutti gli altri, fu quello che dimostrò la falsità del paradigma epistemologico antico: e furono i portoghesi a compierlo, quando il navigatore Gil Eanes nel 1434 riuscì a superare il temuto capo Bojador, che fino a quel momento aveva rappresentato il punto di non ritorno di tutte le spedizioni. In sé si trattò di un episodio modesto: capo Bojador, situato sulla costa africana a 26°07’ di latitudine nord, non ci appare oggi come un grande ostacolo alla navigazione, a parte i bassifondi che stendono per parecchie miglia al largo.

Lo stesso cronista portoghese Azurara, che raccontò questo episodio qualche decennio dopo, riconosce che si era trattato di un’impresa in sé semplice, ma che all’epoca era apparsa straordinaria proprio perché aveva infranto una serie di tabù che fino a quel momento erano apparsi insuperabili. Il principe Dom Enrique, “sponsor” della spedizione, aveva dovuto ricorrere a lusinghe retoriche e promesse di grandi ricompense per ottenere infine che il suo scudiero Eanes, dopo molti tentativi falliti, riuscisse finalmente ad aggirare dal largo il capo maledetto: una piccola navigazione per un uomo, si potrebbe dire parafrasando le celebri parole di Neil Armstrong al momento di mettere piede sulla Luna, ma un grande passo per l’umanità, per lo meno per quella europea.

Ancora più straordinario però appare a noi il coraggio delle spedizioni successive, che si spinsero avanti lungo una costa assolutamente inospitale che sembrava confermare in pieno le previsioni degli scienziati dell’epoca di un progressivo riscaldamento man mano che si procedeva verso sud. Solo dieci anni dopo le caravelle lusitane raggiunsero il fiume Senegal, scoprendo appunto che la concezione tradizionale era sbagliata: la regione a sud di quel fiume infatti era coperta da alberi d’alto fusto e “popolata da genti in numero infinito”, come avrebbe scritto a suo tempo Cristoforo Colombo in una postilla alla sua copia del libro Imago Mundi del cardinal D’Ailly.

Lo stesso Colombo ragionava ancora in termini profondamente medievali anche se, dal suo punto di vista, progettò un vero e proprio “giro del mondo” per raggiungere il Giappone e poi la Cina attraversando il “mare Oceano” a ovest dell’Europa. Nonostante tutti i suoi calcoli, più o meno manipolati per sostenere il suo progetto di fronte ai finanziatori, la spedizione del 1492 si sarebbe risolta in un fallimento totale se le navi non fossero “inciampate”, per così dire, su un lembo delle attuali isole Bahamas. Dal punto di vista medievale che il navigatore genovese incarnava ancora, quelle terre non potevano non essere che le coste orientali dell’Asia. Capire che le cose non stavano così doveva essere il compito della generazione successiva.





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