Il romanzo di Marguerite Yourcenar (1903-1987), Memorie di Adriano, compie sessant’anni. Viene pubblicato in Francia nel 1951, dopo lunghi anni di preparazione e di studi accurati. In Italia esce per i tipi di Einaudi solo nel 1988, tradotto da Lidia Storoni Mazzolani. Nelle note che accompagnano il percorso non facile di gestazione di quello che viene considerato un romanzo, un saggio storico e un’opera di poesia, la scrittrice rivela che, dopo aver distrutto la prima stesura compiuta dal 1924 al 1929, le era rimasta solo una frase pronunciata dal protagonista, l’imperatore Adriano: “Incomincio a scorgere il profilo della mia morte”. Tutto il dipanarsi del racconto è l’inseguire questo profilo nelle pieghe di una vita dedita a ogni forma di conquista, di ricerca, di piacere, di potere.
Verso il 1927, la scrittrice trova con sorpresa un pensiero di Flaubert: “Quando gli dei non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo”. È una luce che le dà l’orizzonte per dedicare vari anni a cercare di definire e poi descrivere quest’uomo solo, eppure legato a tutto, ma soprattutto che la proietta verso una ricostruzione storica che sia la presa di possesso di un mondo interiore, quale deve essere, a suo parere, il romanzo storico proprio del Novecento.
Adriano, imperatore di Roma dal 117 al 138, grande intellettuale oltre che glorioso militare, è l’emblema dell’uomo solo: solo nell’esercizio del potere minacciato, nonostante i larghi consensi, dagli intrighi di occulti oppositori; solo negli affetti, anche se sposato a Sabina, che ben presto ha cessato di amare, non appagato dal giovane Antinoo, perché “non v’è carezza che giunga fino all’anima”; solo nella ricerca della verità, pur in mezzo a libri, filosofi, mistici, profetesse, sacerdoti, che lo illudono e lo deludono. Troppo raffinato nei gusti e diventato scettico nella vana ricerca della sapienza universale, alla fine della vita Adriano è un uomo disilluso. Il vescovo Quadrato gli fa conoscere la dottrina cristiana e soprattutto quanto essa non minacci l’impero, ma l’iniziale curiosità e il fascino di gente semplice e povera si mutano presto nell’avvertimento del pericolo di perdere virtù più eroiche, di scivolare nell’intransigenza settaria. Anche il pensiero dei filosofi gli sembra limitato, confuso e sterile: quest’uomo possiede la lucidità di esaminare tutto, di tutto vedere la potenzialità e il limite. Privo di figli, non sa a chi lasciare l’eredità dell’impero; uomini vicini a lui lo precedono nella morte ed egli scrive il percorso della sua esistenza per un giovane che possa capirne lo spirito, il futuro suo successore Marco Aurelio.
L’epoca della decadenza romana è stata letta come un meriggio che sfuma nel crepuscolo e in questo disfacimento che ha ancora i suoi bagliori sta il motivo del fascino che essa ha esercitato dal decadentismo in poi. La lettura della Yourcenar, attraverso la voce di Adriano, si situa in questo cono d’ombra, in un sapiente intreccio di fili che rivela la vasta conoscenza di un periodo storico e la comprensione della dignità umana di uno dei suoi protagonisti. “Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t’appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti. Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più… Cerchiamo d’entrare nella morte a occhi aperti…”
Il libro si chiude con la citazione dei versi più famosi di Adriano: “Animula vagula, blandula…”. Il profilo della morte con cui inizia l’opera della Yourcenar conclude anche l’indagine della scrittrice francese, prima ed unica donna eletta nell’Académie française, attorno a quel secondo secolo così lontano. La sua colta identificazione con il protagonista offre anche una prospettiva di lettura della nostra civiltà, tentata, venti secoli dopo Cristo, di ritornare all’antico disincanto di chi ha visto la luce e, in fondo inspiegabilmente, preferisce volgerle le spalle.