Non è bello celebrare il centenario di un grande artista riproponendo due giudizi irriverenti su di lui. L’artista in questione è Jackson Pollock, nato il 28 gennaio del 1912 nel Wyoming, pittore mitico e vissuto anche come artista “epocale”, il primo nativo americano a imporsi al centro della scena dell’arte sino a spostare il baricentro dell’arte dall’Europa agli Usa (o meglio, a New York). Pollock è un artista che, a dispetto della sua dirompente e selvaggia novità, aveva trovato immediata risposta nel mercato, sostenuto da grandi galleriste come Peggy Guggenheim e Betty Parson, portato in palmo di mano su quel palcoscenico mondiale che era la Biennale di Venezia già nel 1948, cioè pochissimi anni dopo le sue prime uscite pubbliche (ebbe, primo artista, anche una clamorosa copertina di Life).
Fu un’operazione di intelligenza e spregiudicatezza oggi inimmaginabile, pensata direttamente dall’amministrazione americana: con Pollock e il suo spirito anarchico e libero da ogni regola si voleva dare una risposta al tentativo sovietico di condizionare l’arte europea con un ritorno all’ordine e al realismo più ortodosso. Non c’è bisogno di dire chi vinse quella partita, tanto è evidente come quell’insubordinazione al passato propria di un artista che veniva da un paese senza passato, quel rovesciamento sistematico delle regole, siano diventati il nuovo canone dell’arte sino ai nostri giorni.
Pollock quindi, a dispetto di una biografia rapida e disperata (morì in un incidente d’auto nel 1956), vinse la sua partita. Oggi è tra gli artisti più cari e ricercati dal mercato e anche a livello mediatico è secondo solo al mito di Andy Warhol. Ma Pollock è davvero quello che ci è stato raccontato? È qui che intervengono quei due giudizi irreverenti che però sono di un aiuto decisivo per capire meglio Pollock e per rimettere in ordine un po’ di gerarchie di valori. Il primo giudizio è quello di Francis Bacon, il più grande artista europeo del secondo dopoguerra, che in tante interviste o dialoghi privati non aveva nascosto il suo disprezzo per Pollock. Un disprezzo in realtà allargato a tutti i pittori che negli anni cinquanta e sessanta avevano sposato l’arte astratta, in cerca di un’energia smarrita. Per Bacon la rinuncia alla rappresentazione anche drammatica delle forme era una resa rispetto alla propria vocazione di pittori. Quasi una forma di viltà. Lo spiegò con grande efficacia in un’intervista alla fine degli anni settanta: «Ho detto che gli artisti moderni vogliono le rose senza le spine, ovvero che vogliono comunicare senza il fastidio delle parole. Per questo negli ultimi anni tutti i modelli sono stati astratti». In privato poi i suoi giudizi erano anche sprezzanti nei confronti dei singoli, tanto che il suo grande intervistatore, David Sylvester, si era dissociato pubblicamente da certe parole dette da Bacon proprio su Pollock.
Il capo d’imputazione di Bacon nei confronti del pittore americano è soprattutto uno: la sua pittura si riduce ad essere “decorazione”. Quando nel 1982 Giovanni Testori, allora responsabile della pagina d’arte del Corriere della Sera, si recò a Parigi per vedere e recensire la grande mostra su Pollock organizzata al Pompidou, non poteva sapere quale fosse il pensiero di Bacon, perché il libro con le interviste di Sylvester allora non era ancora stato pubblicato. Eppure il giudizio di Testori è straordinariamente sintonico con quello di Bacon. Lo scrittore racconta la mostra con un lungo articolo ragionato e dalla scrittura travolgente (l’Associazione Testori lo ha opportunamente riproposto sul suo sito). Lo sconcerto di Testori è riassunto in questo interrogativo: «Dovremmo sforzarci a leggere i famosi dripping (i quadri dipinti facendo sgocciolare il colore sulle tele, ndr) e le famose azioni pollockiane come smisurati ricami?». Testori parla di un’«ammansita e analgesica soluzione» in cui inspiegabilmente rifluisce tutto il furore esistenziale che aveva mosso Pollock. E la definisce con parole uguali a quelle di Bacon, «una virata verso la decoratività».
Si chiede Testori, perché la grande finestra che Pollock aveva spalancato, dilatando le dimensioni delle tele, aprendo orizzonti di libertà anche nella realizzazione delle opere, alla fine si fosse risolta in un movimento tutto centripeto? In un orizzonte ultimamente intimistico (non è un caso che Pollock sia sempre stato così condizionato dall’analisi junghiana)?
Sono domande che restano aperte ancora oggi. Provocazioni che non solo giudizi su Pollock ma sono anche interrogativi radicali sul senso del fare arte e del rapporto che l’arte ha con la realtà.
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