Il tempo dell’Avvento è il tempo in cui la liturgia della Chiesa celebra l’attesa dell’uomo. Che cos’è infatti il Natale, se non il piegarsi del divino sull’indigenza estrema degli uomini suoi amati? E che cos’è l’Avvento, se non il reclamare da parte dell’uomo il risveglio e il compimento di quest’attesa che ne è la stoffa?
«Ma il Figlio dell’Uomo, quando tornerà, troverà la fede sulla terra?» In una recente meditazione, Benedetto XVI ha rimarcato come l’uomo continui, nella sua ricerca inesausta del piacere, di piaceri particolari e materiali, a mostrarsi fatto del desiderio di Dio. Un desiderio che tante volte ci sembra non vero, ma delle cui testimonianze è costellata la storia umana e la storia di ognuno di noi, come ci ricordano tanta arte e letteratura delle più alte, mostrandoci come l’uomo che accetti di essere uomo, di viversi e guardarsi, di correre e straziarsi, non possa non scoprire in sé un desiderio di pace e compiutezza totali.
Scoprire in sé, dato e inestirpabile. Come l’anima semplicetta che Dante descrive nel XVI canto del Purgatorio – che non sa altro di sé, se non che vuole tornare a quel bene da cui sente di essere originata, non ostante i suoi contorni siano sfocati – così l’uomo vivo, di qualunque condizione o estrazione culturale, percepisce il proprio cuore come una promessa.
Ne è un esempio Giorgio Caproni, capace a 78 anni di lavorare a una raccolta rimasta incompiuta dal titolo indicativo di Res amissa (Cosa perduta). Qual è questa cosa perduta di cui Caproni ci parla e che tutti noi conosciamo, se non quel bene di cui il nostro cuore porta inscritta la matrice? «Tutti riceviamo un dono. / Poi non ricordiamo più/ né da chi né che sia. / Soltanto ne conserviamo / – pungente e senza condono – / la spina della nostalgia» (Generalizzando). È questa spina, questa nostalgia, che ci accende per le cose del mondo. E l’anima semplicetta, che vuole e cerca il proprio bene ma non conosce la strada per raggiungerlo, di queste cose si incendia, di questo «picciol bene» di cui «in pria sente sapore» (Purgatorio XVI, 91).
Un bene piccolo ma così attraente che l’anima è quasi costretta a cantarne le lodi, come intuisce Pound, che in una poesia giovanile, Lode di Ysolt, descrive perfettamente il cozzare tra una razionalità fredda che non vuol credere all’attesa del cuore e un cuore informe che si illude di essere signore del proprio desiderio: «Invano ho lottato / per indurre il mio cuore a piegarsi. / Invano gli ho detto: / «ci sono cantori più degni di te». // Viene la sua risposta, come il vento e il liuto, / come un grido sfocato nella notte / che non mi lascia tregua e che ripete / «un canto, un canto» (Lode di Ysolt, 1-8).
«Un canto, un canto». Ma le gioie cadono, gli amori cadono, il cuore e il desiderio non sono capaci di tenersi in piedi e al suo culmine ogni passione mostra il proprio punto di vuoto: «Ecco, sono esausto, travagliato / e il mio vagabondare molte strade ha fatto dei miei occhi / rossi cerchi scuri pieni di polvere» (Lode di Ysolt, 1-8). Così il punto di vuoto può farsi voragine e risucchiare ogni cosa in un orizzonte piatto in cui tutto suona cupo e sordo. È l’esperienza che Sbarbaro descrive in una delle sue poesie più struggenti: «Taci, anima stanca di godere / e di soffrire (all’uno e all’altro / vai rassegnata). / Nessuna voce tua odo se ascolto: / non di rimpianto per la miserabile / giovinezza, non d’ira o di speranza, / e neppure di tedio. / Giaci come / il corpo, ammutolita, tutta piena / d’una rassegnazione disperata» («Taci, anima stanca di godere», 1-10). Quel mondo che incendiava il cuore – quella bellezza straziante delle cose, quel dolore incomprensibile delle cose – d’un tratto sono carne morta, simulacri di se stessi: «E gli alberi son alberi, le case / sono case, le donne / che passano son donne, e tutto è quello / che è, soltanto quel che è. / La vicenda di gioja e di dolore / non ci tocca. Perduta ha la sua voce / la sirena del mondo, e il mondo è un grande / deserto» («Taci, anima stanca di godere», 16-24).
«Nel deserto / io guardo con asciutti occhi me stesso» («Taci, anima stanca di godere», 25-26). Il mondo è già visto, tutto è solo e soltanto quel che è, e l’uomo è così mortalmente stanco e deluso che nemmeno sa più piangere. Stanco di sé e della vita, stanco del dolore proprio e di quello che altri vivranno dopo di lui. Erano questi i sentimenti dell’israelita Simeone quando tutte le mattine andava al tempio, ed è nella sua esperienza che T.S. Eliot, pochi anni dopo la conversione, ci fa entrare riscrivendone il cantico pronunciato davanti a Gesù: «Dona a noi la pace. / Ho camminato anni in questa città, / serbata la fede e il digiuno, ho provveduto ai poveri, / ho dato e avuto onori e agi. / Nessuno giunto alla mia porta fu respinto. / Chi si ricorderà della mia casa, dove vivranno i figli dei miei figli / quando sarà vento il tempo del dolore?» (Cantico di Simeone, 8-14).
Dove finirà tutto il mio bene, dove tutto il mio male? Che cosa resterà di me e del mio nome in questa terra, in questa storia umana? Chi libererà questo mio corpo mortale? Chi salverà ciò che amo dalla morte? È a questo grido che il bambino del tempio di Gerusalemme risponde, è alla verità di questo grido nostro, di noi qui e ora – sfatti come siamo, inermi e aggressivi come siamo – che ancora una volta ci mette davanti, un po’ più fragili e un po’ più salvi: «Prima delle stazioni sopra il monte di desolazione, / prima dell’ora certa del dolore materno, / ora, in questa stagione di nascita mortale, / fa’ che il bambino, l’ancora impronunciante e impronunciato Verbo, / conceda la consolazione d’Israele / a un uomo di ottant’anni che non ha un domani. // […] Sono stanco della mia vita e di quella di coloro che verranno, / muoio della mia morte e di quella di coloro che verranno. / Lascia che il tuo servo vada, / dopo aver visto la tua salvezza» (Cantico di Simeone, 19-24; 34-37).
T.S. Eliot, Cantico di Simeone
Signore, i giacinti dei Romani fioriscono nei vasi
e il sole d’inverno sguscia sui colli di neve:
la stagione ostinata si sofferma.
La mia vita è lieve, attende il vento della morte
come una piuma sul dorso della mano.
La polvere nel sole e la memoria negli angoli
attendono il vento che gela verso la terra morta.
Dona a noi la pace.
Ho camminato anni in questa città,
serbata la fede e il digiuno, ho provveduto ai poveri,
ho dato e avuto onori e agi.
Nessuno giunto alla mia porta fu respinto.
Chi si ricorderà della mia casa, dove vivranno i figli dei miei figli
quando sarà vento il tempo del dolore?
Dovranno prendere il sentiero della capra, la tana della volpe:
dai volti stranieri fuggiranno, dalle loro spade.
Prima dell’ora delle corde, delle sferze e del lamento
dona a noi la pace.
Prima delle stazioni sopra il monte di desolazione,
prima dell’ora certa del dolore materno,
ora, in questa stagione di nascita mortale,
fa’ che il bambino, l’ancora impronunciante e impronunciato Verbo,
conceda la consolazione d’Israele
a un uomo di ottant’anni che non ha un domani.
Secondo la tua parola.
Ti pregheranno e soffriranno tutte le generazioni
tra gloria e scherno,
luce su luce, salendo la scala dei santi.
Non per me il martirio, l’estasi del pensiero e la preghiera,
non per me la visione somma.
Dona a me la pace.
(E una spada trafiggerà il tuo cuore,
anche il tuo).
Sono stanco della mia vita e di quella di coloro che verranno,
muoio della mia morte e di quella di coloro che verranno.
Lascia che il tuo servo vada,
dopo aver visto la tua salvezza.
(Trauzione di Daniele Gigli)
L’autore è ospite del programma Matita blu condotto da Pietro Bucolia su Radio Nichelino Comunità dalle 9.05 alle 9.50. Frequenze 107.4 FM per la provincia di Torino; 107.3 FM per la provincia di Cuneo; in streaming su www.rncweb.it. Venerdì 21 la quarta e ultima tappa delle letture di poesia sull’Avvento con − appunto − T.S. Eliot, Cantico di Simeone.