Ancora oggi non è dato sapere, con certezza, quante furono le vittime delle foibe, le cavità carsiche nelle quali vennero fatti sparire gli italiani trucidati dai partigiani jugoslavi nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945. Come non possiamo sapere a quanti giovani dicano qualcosa i nomi di Norma Cossetto o di Mafalda Codan, o i luoghi come Basovizza, Gradisca, Lepoglava, Borovnica, Maresego, Aidussina, Sisak, Novo Mesto, solo per citarne alcuni. «Molto è cambiato, siamo sulla strada giusta» dice Raoul Pupo a IlSussidiario.net in occasione del Giorno del ricordo. È stata infatti la legge 92 del 2004 a istituire il 10 febbraio come giorno dedicato alla memoria di una delle pagine più oscure e drammatiche della storia italiana. «L’evento fondante è l’89, il crollo del comunismo, e con esso la riscoperta di segmenti di storia europea dei quali prima non si parlava» spiega Pupo. Nuove ricerche, soprattutto da parte di giovani con doppia nazionalità, italiana e croata, sono in arrivo e avranno molto da insegnare. Di «fine della storia» sul confine orientale proprio non si può parlare.
Raoul Pupo, quale fu l’origine delle violenze cui è dedicato il «Giorno del ricordo»?
L’estensione alla Venezia Giulia dei criteri di lotta che erano già in uso da parte del movimento di liberazione jugoslavo a partire dal 1941. Nel ’43 questa logica arriva anche nella Venezia Giulia: per circa un mese, prima dell’arrivo dei tedeschi, l’Istria interna è occupata da truppe partigiane jugoslave che attuano una violenta repressione di tutti coloro che sono sospettati di opporsi al progetto comunista. Nel ’45, con la fine della guerra e la disfatta tedesca, tutta la Venezia Giulia viene nuovamente occupata dalle truppe partigiane jugoslave, che attuano una repressione ancor più violenta della volta precedente.
È possibile fornire cifre certe delle vittime delle foibe e delle popolazioni coinvolte nell’esodo determinato dalla repressione partigiana?
Sono due fenomeni completamente diversi. Per quanto riguarda le foibe, possiamo dare al massimo un ordine di grandezza: in questo caso i morti e gli scomparsi sono alcune migliaia. Sull’esodo invece abbiamo stime più accurate, e possiamo parlare di circa 300mila persone costrette ad andarsene dalla fine delle seconda guerra mondiale per circa un decennio. In larga maggioranza si è trattato di italiani, ma non solo.
Secondo lei la tragedia delle foibe è ormai radicata nella coscienza nazionale?
Statistiche recenti dicono che dopo parecchi anni di celebrazione del Giorno del ricordo la conoscenza è aumentata di molto. Non così per l’esodo, e non è strano anche se è ugualmente preoccupante, perché dei due fenomeni quello più gravido di conseguenze è stato quest’ultimo. L’esodo ha praticamente cancellato il 90 per cento della presenza italiana nella Venezia Giulia. A differenza delle foibe – una tragedia più «visibile», molto più utilizzabile politicamente – l’esodo istriano-dalmata come fatto storico è rimasto in ombra ed è ancora poco conosciuto.
Perché per così lungo tempo – fino ai primi anni novanta – l’argomento foibe è stato tabù?
L’argomento ha interessato l’opinione pubblica più o meno fino agli anni cinquanta, anche perché oggetto di forte contrapposizione politica tra cattolici e comunisti. Poi la sovraesposizione, quando è cambiata la stagione politica, ha giocato al contrario, a danno della verità. Negli anni sessanta, settanta e ottanta infatti i rapporti tra Italia e Jugoslavia erano divenuti molto buoni: la Jugoslavia era diventata un investimento strategico per l’Italia, in quanto Stato-cuscinetto nei confronti dell’Urss. D’altra parte il Pci guardava con grande interesse all’esperimento jugoslavo. Se mettiamo insieme tutto questo, capiamo perché non c’era nessun interesse della politica a parlare dell’argomento. Attenzione: della politica, non degli studiosi. A noi storici interessava e lo abbiamo studiato. Soprattutto, anzi direi quasi esclusivamente, in sede locale.
Cosa significò per il Pci aver a che fare con un partito omologo ma di ispirazione diversa, come il Partito comunista jugoslavo (Pcj)?
Occorre tener presente che il Partito comunista nella Venezia Giulia era diverso dal Partito comunista italiano, perché a partire dall’autunno del 1944 all’interno del Partito comunista di Trieste e dell’Istria era prevalsa la corrente vicina al movimento di liberazione jugoslavo. Il partito comunista precedente era stato distrutto dai tedeschi; le componenti rimaste assunsero le direttive del Pcj, il che voleva dire molte cose: non solo battersi per l’annessione alla Jugoslavia, ma anche seguire linee di tipo rivoluzionario e oltranzista, radicali, ben diverse da quelle di Togliatti. Il tentativo di esportarle in Italia mise il Pci in un imbarazzo estremo. Nel complesso del problema che ci interessa, il Pci cercò di cavarsela come potè, dicendo, non dicendo, contraddicendosi.
Cos’hanno voluto dire questi eventi, e le relative ricerche, per la Jugoslavia prima, e poi per Croazia e Slovenia?
Per la Jugoslavia le foibe sono state davvero un tabù. La libertà di ricerca era del tutto assente, si potevano al massimo ripetere gli stereotipi della propaganda jugoslava dal ’45 in poi. Ogni tentativo di parlarne era considerato, come si diceva allora, una «provocazione». Quando la Jugoslavia si è dissolta, nelle nuove repubbliche si è cominciato a parlare di tutto, e questi argomenti sono stati oggetto di nuove ricerche, soprattutto in Slovenia. Il dato positivo, oggi, è che non è più possibile parlare di storici italiani e storici sloveni che difendono una tesi nazionale.
E nel caso della Croazia?
In Croazia invece i conti col passato sono molto più difficili, e solo adesso si comincia con enorme prudenza ad affrontare questi argomenti. La Croazia è diventata indipendente con una guerra che potremmo definire «risorgimentale», e l’impronta nazionalistica è ancora molto forte. La cultura croata sta ripensando solo ora, in modo faticoso e lacerante, a tutto quello che è successo durante il secondo conflitto mondiale e nel dopoguerra. Ci sono parecchi scheletri negli armadi e quello degli italiani è un problema complicato. Ma qualcosa sta cambiando: non è un caso che le ricerche più interessanti vengano da giovani studiosi con la doppia cittadianza italiana e croata. Sono a cavallo tra le due culture: riescono ad accedere con maggiore facilità alle fonti e hanno uno sguardo diverso, più aperto.
Come si spiega il cambiamento, cominciato negli anni novanta, che ha potuto portare infine al Giorno del ricordo?
Da un lato l’evento fondante è l’89, il crollo del comunismo e – con esso – la riscoperta su scala europea di segmenti di storia dei quali prima non si parlava; dall’altro il mutamento di stagione politica in Italia, con la scomparsa dei partiti politici tradizionali e il presentarsi di nuove forze politiche bisognose di legittimazione culturale. Uno degli argomenti classici del sentimento nazionale italiano, il confine orientale, ha offerto questa possibilità. Tale fatto ha riacceso l’interesse della politica per la storia della Venezia Giulia, generando un circolo virtuoso: si parla del dramma, gli studi circolano. D’altra parte questo porta anche dei rischi, soprattutto quello di uso politico strumentale.
La storia del confine orientale italiano è «finita»?
La Venezia Giulia è un grande laboratorio, perché condensa, in un territorio molto piccolo, abitato da un milione di persone, uno dei principali fenomeni della contemporaneità nell’Europa centrale: il passaggio dall’Europa plurale – tipica del vecchio assetto politico centroeuropeo – a stati mononazionali, attraverso fasi assolutamente traumatiche fatte di eliminazioni di massa, spostamenti di popolazioni, esperimenti totalitari. Ma studiare la Venezia Giulia serve molto ancora oggi, perché ci permette di capire a fondo l’identità italiana; se è vero – e penso che sia innegabile – che solo per metà l’Italia come la conosciamo affonda le sue radici nel risorgimento. No, la storia del confine orientale è ancora aperta.