Ci sono molti modi di accostarsi al mito grecoromano. C’è una curiosità verso un mondo d’immagini strano, vario, fascinoso, che illumina e rallegra il nostro mondo apparentemente più piatto e banale, grigio-banca diremmo. Questo modo ha come esiti le molte vicende di libri e cartoni per ragazzi (dalla piccola dea Pollon alla recente serie su Perseus/Percy Jackson) o di film avventurosi come i vari B movies (in genere con Ercole) o il più famoso Troy. Non è un modo particolarmente dannoso in sé, ma ha il limite di veicolare un’immagine come pura vicenda, non solo sganciata dal mondo che l’ha inizialmente espressa ma sganciata da qualunque realtà con un minimo di spessore. Diviene un modo dannoso se implicitamente o esplicitamente comunica una nostalgia, un rimpianto verso un passato astorico: un passato di molteplici dèi vivaci e in fondo semplici, sensuali e poco esigenti, contrapposti forse ad un Dio che chiede troppo al cuore e alla ragione.
C’è poi un altro tipo di curiosità, scientificamente declinata: uno studio inesausto, che definisce intere comunità universitarie, e incide anche sulla bibliografia scolastica e di alta divulgazione. Nonostante le apparenze questo modo (che banalmente potremmo definire “antropologico”, con tutti i limiti della definizione di cui ci scusiamo in partenza) crea rispetto al mito antico un distacco maggiore della modalità precedente. Le creazioni del passato sono studiate nella loro origine (storica, cultuale, rituale, sociopolitica), spesso confrontate con creazioni analoghe di altre epoche e di altri luoghi, per trarne dei modelli, degli schemi che si ripetono: l’iniziazione del giovane capo, il passaggio da società matriarcale a società patriarcale, la fondazione di città, la successione regale, i riti di fecondità, di espiazione… Sono studi non per soli iniziati, dall’interesse notevole, che sanno trasportare da un’epoca all’altra, da un popolo all’altro: ma il rischio è che se ne ricavi l’impressione di un meccanismo che elimina domande e risposte, identità e differenze, le categorie del tempo e dello spazio, e nelle somiglianze non sappia trovare l’ultimo perché, ma solo il ripetersi inspiegato di passaggi analoghi.
Quale può essere dunque per noi un giusto approccio al mito? In due passi di Gesù di Nazaret di Benedetto XVI troviamo una risposta implicita, che segna un metodo: “Così, nelle religioni del mondo, il pane era diventato il punto di partenza dei miti di morte e risurrezione della divinità, in cui l’uomo esprimeva la sua speranza di una vita nascente dalla morte…. Il mistero della passione del pane l’ha, per così dire, aspettato, si è proteso verso di Lui, e i miti hanno aspettato Lui, in cui il desiderio è diventato realtà” (Joseph Ratzinger, Gesù di Nazaret, I, Rizzoli 2007, pagg. 315-16); “Non un incontro immediato ed esterno tra Gesù e i Greci è ciò che conta. Ci sarà un altro incontro che andrà molto più nel profondo… Essi vedranno la sua ‘gloria’: nel Gesù crocifisso troveranno il vero Dio, di cui nei loro miti e nella loro filosofia erano alla ricerca” (id. II, Libreria Ed. Vaticana 2011, pag. 30). Speranza, attesa, protendersi, desiderio, ricerca, vedere, trovare, realtà: che percorso magnifico! e che straordinario legame fra la ricerca espressa dai filosofi e quella comunicata per visioni, attraverso il mito, da poeti ed artisti.
Il metodo proposto dal Papa è in fondo ancora quello di Paolo davanti all’Areopago: “Egli ha voluto che gli uomini cercassero Dio e si sforzassero di trovarlo, come a tentoni, quantunque non sia lontano da ciascuno di noi. In Lui infatti noi viviamo, ci muoviamo e siamo, come hanno detto alcuni dei vostri poeti: ‘di Lui siamo la stirpe’” (Atti 17): il mito, la poesia, la raffigurazione artistica esprimono il desiderio del cuore umano e i poveri, frammentati, eppure vertiginosi tentativi di risposta. Noi ne cogliamo con emozione tutti i passaggi, anche quelli più inconsapevoli, perché l’ampiezza della risposta chiarisce la domanda, la completa, ne vede inaspettate risonanze.
Ma c’è ancora un modo di accostarsi al mito, complesso e affascinante: la ricreazione del mito, il suo utilizzo per esprimere non l’illustrazione del mito stesso, ma il proprio io. L’ha ben spiegato Cesare Pavese: “Siamo convinti che il mito è un linguaggio, un mezzo espressivo – cioè non qualcosa di arbitrario ma un vivaio di simboli cui appartiene, come a tutti i linguaggi, una particolare sostanza di significati che null’altro potrebbe rendere. Quando ripetiamo un nome proprio, un gesto, un prodigio mitico, esprimiamo in mezza riga, in poche sillabe, un fatto sintetico e comprensivo, un midollo di realtà che vivifica e nutre tutto un organismo di passione, di stato umano, tutto un complesso concettuale” (C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi 1947, prefazione).
Utilizzando il mito antico l’autore moderno, Pavese come Pasolini, Anouilh come Christa Wolf, ripercorre lo stesso itinerario compiuto prima di lui dai tragici greci come da Virgilio, e più tardi da Racine come da Alfieri: l’utilizzo di una storia nota per comunicare qualcosa di sempre diverso e sempre nuovo. Il mito nella sua essenza non è modificabile, ma i cambiamenti minori segnano la diversità delle epoche, dei gusti, del pubblico; e il senso ultimo che ne emerge appartiene all’autore, e viene colto con maggiore immediatezza che se venisse espresso con una storia inventata.