La diagnosi di Mauro Magatti, sociologo, docente nell’Università Cattolica di Milano, è severa e impietosa. Chi pensasse di tornare a crescere, vagheggiando per l’economia capitalistica le «magnifiche sorti e progressive» che si respiravano a Wall Street (e in una certa Europa) prima del 2008, è fuori strada. La «grande contrazione» ha fermato il cuore pulsante di un capitalismo malato dal di dentro. È la fine di un’epoca, dice Magatti. Il punto d’arrivo di una libertà malata di onnipotenza, che ha pensato di fare con la finanza ciò che faceva col Dna. In questa intervista, Magatti parla con IlSussidiario.net del suo ultimo lavoro, La grande contrazione. Il fallimento della libertà e le vie del suo riscatto (Feltrinelli).
Professore, lei paragona la crisi finanziaria del 2008 ad un «infarto» al cuore del sistema. Perché?
Il cuore pompa sangue in tutto il corpo, lo stesso ha fatto la finanza per due decenni nelle economie avanzate. L’infarto si è verificato al «cuore» del sistema economico planetario, cioè Wall Street, colpendo le principali società di intermediazione finanziaria che hanno dominato una fase di espansione cominciata negli anni 90 e di cui non ci sono eguali nella storia. Infine, come è noto, l’infarto ha a che fare con cause che non attengono solamente alla fragilità biologica, ma anche allo stile di vita.
Lei scrive che «la crisi c’entra con il fallimento della libertà di massa». Che vuol dire?
È la mia tesi di fondo. Mi metto nella scia di uno dei più grandi interpreti del nostro tempo, ossia di papa Ratzinger. La crisi della libertà di cui parlo è la grande crisi spirituale che Benedetto XVI descrive in modo impareggiabile nella Caritas in veritate. La si può cogliere sia dal lato della soggettività, come libertà individualistica e dispersiva, sia dal lato della sua attuazione storica, manifestandosi come tecnica onnipotente priva di riferimento alla sfera del valore.
Come può avvenire che chi ha migliaia di euro (o di dollari) a debito, continui a consumare come se nulla fosse?
Appunto. Il consumo è stato l’elemento chiave della dinamica economica negli ultimi tre decenni. Ciò che lei dice può essere compreso solamente se si intepreta la crisi del sistema capitalistico come crisi della coscienza e dunque della libertà. Avviene qruando l’idea di libertà che informa i comportamenti individuali e sociali è quella di una libertà senza limiti, per la quale le cose sono indefinitamente plasmabili dalla tecnica. «Crisi» – economica perché spirituale – vuol dire che quella stagione ha dato quello che doveva dare.
Lei è contro gli strumenti evoluti della finanza?
No. Lungi da me sostenere la tesi che gli strumenti finanziari non siano preziosi, al contrario; devono però servire a fare economia, e l’economia ha il compito di servire l’uomo, non quello di girare come un automatismo o di volare come un aquilone cui si è tagliato il filo.
La crisi della libertà è definitiva?
Tutt’altro. La stagione che viviamo è l’ultimo esito di un percorso secolare fatto di luci ed ombre, ma la libertà ha ancora molte tappe da scrivere. D’altra parte solo la libertà può consegnarci ad una stagione nuova, dove potrà declinare se stessa in maniera, speriamo, umanamente più ricca di come è stato negli ultimi 30 anni.
La crisi del tecno-nichilismo che lei denuncia nel suo libro trascina con sé anche il capitalismo, il benessere, lo sviluppo?
No, se di quella crisi saremo capaci di dare una interpretazione storica, se cioè capiremo che cosa è realmente avvenuto. La stagione che si conclude sotto i nostri occhi, segnata da quella che chiamo «esperienza di massa della libertà», ha significato per il 90 per cento della popolazione dell’occidente l’accesso al benessere materiale, alla democrazia politica e a un pluralismo culturale mai visti nella storia. Ma l’uomo, ecco il punto, si porta sempre dentro grandi ambivalenze. Così, la pretesa di un io che, grazie alla tecnica, si pensa onnipotente ha rovinato tutto o quasi. Abbiamo pensato di poter escludere la domanda di senso dell’uomo, culminante nella religione, prima dalla sfera individuale, e poi dalla sfera pubblica, provocando la reazione uguale e contraria dei fondamentalismi che si sono manifestati in questi 20-30 anni. L’esito paradossale è che con la caduta del senso le società mature e benestanti non hanno più saputo cosa fare di quella libertà che hanno conquistato in mezzo secolo di storia.
Nella parabola del tecno-nichilismo lei distingue il desiderio dal bisogno. Qual è la differenza tra i due?
Il bisogno trova soddisfazione in un bene finito, il desiderio invece ha una estensione infinita, parla di qualcosa che in qualche modo è irraggiungibile, e come tale ha una capacità di evocazione infinitamente superiore rispetto al bisogno. Il trucco del capitalismo tecno-nichilista è quello di oggettivare in continuazione il desiderio, mettendogli davanti un bene o una singola esperienza e donandogli così l’illusione dell’appagamento. La sfida è riaprire l’orizzonte del desiderio, liberandolo dalle strettoie materialiste in cui viene attualmente soffocato.
Oggi la crescita è un mantra. Crescere è essere competitivi?
No, per come io vedo le cose. Negli ultimi 30 anni abbiamo avuto una stagione storica straordinaria in cui tutto sembrava destinato a espandersi per definizione − la finanza, i mercati, i redditi, la libertà. Una cosa assolutamente positiva, con l’unico, piccolo dettaglio di essere insostenibile. Una crescita materiale che si pensa come infinita fa «saltare» la domanda di senso, l’amicizia dell’altro, il rispetto del creato. Non intendo ovviamente farmi sostenitore di un discorso della decrescita. Occorre crescere, ma in modo nuovo, facendo tesoro della lezione.
In che modo?
Occorre tornare a «fare economia», usando bene, senza sprechi, le risorse disponibili. Ad esempio nella gestione delle risorse pubbliche. Ma la cosa più importante è elaborare un nuovo concetto di crescita, che non potrà più essere un’espansione quantitativa senza essere al contempo qualcosa che ha a che fare con la qualità delle nostre relazioni, con la bellezza, con la capacità di creare luoghi e occasioni in cui ci domandiamo che cosa stiamo a fare al mondo.
In tutto questo c’è un contributo peculiare che può venire dalla tradizione italiana?
Certamente. Il paradosso è che la marginalità dell’Italia rispetto ad alcuni processi degli ultimi vent’anni l’ha al tempo stesso preservata da alcune pericolose derive. Penso alla «resistenza» dei nostri legami familiari, alla vivacità della nostra impresa, al ruolo che continuano ad avere le nostre città piccole come luoghi in cui si salvano e si mantengono i rapporti di senso. L’Italia ha una straordinaria capacità di tenere insieme il particolare, la singolarità, con una proiezione universale, e questa capacità ha la sua spiegazione ultima nel «codice» cattolico del nostro Paese. Ed è una dote profondamente anti-tecno-nichilista.